L’introduzione in Italia dal 2019 della cosiddetta Web tax, imposta sulle transazioni digitali, va inquadrata in un contesto legislativo internazionale in evoluzione per dare risposta al crescente sviluppo delle imprese digitali anche in termini dimensionali, con l’obiettivo di colmare il gap fiscale fra le imprese tradizionali e queste nuove imprese digitali, specie quelle di grandi dimensioni.
L’espansione delle imprese digitali ha dato origine ad un cambiamento epocale dell’economia se si considera che attualmente 9 delle 20 società più importanti al mondo per capitalizzazione di mercato sono digitali; è stato stimato che le imprese digitali subiscono una tassazione effettiva di circa il 9,5%, contro una tassazione del 23,2% delle imprese tradizionali.
Alla luce di tale realtà negli ultimi anni si è intrapreso un percorso per trovare le soluzioni legislative idonee a ridurre tale gap.
In ambito internazionale, l’OCSE ha affrontato le problematiche connesse alla tassazione dell’economia digitale nell’ambito del progetto BEPS “Base Erosion and Profit Shifting” con un’approfondita analisi delle principali sfide poste all’economia tradizionale, giungendo tuttavia alla conclusione della non opportunità di una disciplina specifica per la tassazione dell’economia digitale.
Diverso è l’approccio adottato dal legislatore italiano e da quello comunitario.
L’Italia è stata uno dei primi Paesi dell’Unione Europea a introdurre specifiche disposizioni volte ad assoggettare ad imposizione i redditi prodotti in Italia dalle imprese digitali; l’intento è quello di colpire in particolare quelle imprese multinazionali che, tendenzialmente sfuggono ai sistemi di tassazione tradizionale basati sulla localizzazione dell’impresa nel territorio dello Stato, in assenza di una base fissa fisica in Italia.
In particolare, il nostro legislatore, con l’ultima legge di Bilancio, è intervenuto sotto un duplice profilo: da un lato ha introdotto la nuova “Web tax” e, dall’altro, ha modificato le norme in materia di stabile organizzazione (SO) in modo da superare la definizione di SO basata sul radicamento territoriale inteso in senso tradizionale.
Recentemente anche il legislatore UE si è mosso nella stessa direzione del nostro. Il 21 marzo scorso la Commissione europea ha presentato due proposte di direttiva per la tassazione dell’economia digitale, sulla stessa linea di intervento adottata dal nostro legislatore interno.
La prima direttiva prevede di introdurre una riforma strutturale delle norme comunitarie in materia di imposta sulle società, con una nuova definizione di stabile organizzazione virtuale ad hoc per le imprese del settore digitale, così da consentire la tassazione da parte degli Stati nei quali dette imprese hanno un’interazione significativa con gli utenti attraverso i canali digitali (Nota 1)
La seconda proposta di direttiva prevede, invece, come misura temporanea nelle more dell’introduzione delle modifiche strutturali di cui sopra, una “digital service tax” comunitaria del 3%; il nuovo tributo si applicherebbe ai ricavi generati da attività digitali, con riferimento alle sole imprese con ricavi annui complessivi a livello mondiale di 750 milioni di euro, di cui 50 milioni nella UE, e si stima dovrebbe portare nuove entrate nell’ordine di 5 miliardi di euro/anno.
La web tax UE che dovrà essere riscossa dagli Stati membri in cui si trovano gli utenti ha, da un lato, un ambito di applicazione limitato, sul piano soggettivo, ai grandi gruppi, e, dall’altro un ambito oggettivo di applicazione più ampio rispetto alla Web tax italiana.
Con la previsione di questa imposta temporanea, la Commissione UE intende far sì che tutte le attività attualmente non tassate inizino a generare un gettito immediato per gli Stati membri, oltre che evitare che alcuni Stati membri, come già avvenuto nel nostro Paese, adottino misure unilaterali per tassare le attività digitali. Tale sistema, come detto, si applicherà solo a titolo temporaneo, fino all’attuazione di una riforma globale integrata da meccanismi che limitino la possibilità della doppia imposizione.
Le due proposte legislative saranno presentate al Consiglio e al Parlamento europeo e potranno essere soggette a modifiche e revisioni condizionate dal dibattito mondiale sulla tassazione dell’economia digitale nell’ambito del G20 e dell’OCSE.
Di seguito si esaminano le norme interne a confronto con le proposte di direttiva UE.
Sotto il profilo interno, come anticipato, la Legge di Stabilità 2018, Legge n. 27.12.2017 n. 205 (in GU n.302 del 29-12-2017 – Suppl. Ord. n. 62), ha introdotto dal 2019, con un anno di ritardo rispetto alla originaria formulazione, la nuova “imposta sulle transazioni digitali relative a prestazioni di servizi effettuate tramite mezzi elettronici”, cosiddetta Web tax.
Si tratta di un’imposta indiretta nella misura del 3% dei corrispettivi praticati, al netto dell’IVA che grava sugli operatori economici italiani e stranieri che, in un anno, effettuino più di tremila prestazioni di servizi “digitali”, quali la pubblicità on line e il cloud computing.
L’imposta è finalizzata ad incidere più che altro sulle grandi imprese multinazionali del web ma graverà di fatto anche su una molteplicità di imprese nazionali che operano nel settore e che superano il suindicato limite di 3 mila transazioni nell’anno solare.
Per non essere inciso dall’imposta, il fornitore del servizio web è tenuto ad indicare in fattura, (o in “altro documento idoneo da inviare contestualmente alla fattura”, eventualmente individuato con provvedimento dell’Agenzia delle Entrate) di non superare questo limite; trattasi, con tutta evidenza, di procedure di non semplice applicazione nel momento in cui, come normalmente avviene nel settore, il pagamento e la fatturazione sono completamente automatizzati.
Diversamente, nella proposta di direttiva UE, la web tax si applica solo a imprese di grande dimensione come anticipato con ricavi consolidati di gruppo superiori a 750 milioni di euro annui, di cui almeno 50 milioni derivanti da attività svolte nell’Unione europea.
L’imposta italiana si applica solo nel momento in cui la prestazione è resa nei confronti di un sostituto d’imposta residente di cui all’art. 23 comma 1 del DPR 600/73 oppure di una stabile organizzazione italiana di un soggetto non residente; sono, quindi, escluse dall’ambito applicativo del nuovo tributo le prestazioni effettuate nei confronti di soggetti privati e quelle rese nei confronti dei soggetti in regime forfetario (art. 1 comma 54 della L. 190/2014) o in regime di vantaggio per l’imprenditoria giovanile (art. 27 del DL 98/2011).
Di contro, la proposta di direttiva comunitaria non pone invece distinzioni tra operazioni “B2B” e “B2C”, ricomprendendo dunque nell’ambito di applicazione della web tax tutte le transazioni rese dai grandi gruppi, a prescindere dalle caratteristiche soggettive della controparte cliente.
L’individuazione dei servizi “digitali” è demandata a un decreto del MEF, che avrebbe dovuto essere emanato entro il 30 aprile scorso ma la cui approvazione è stata rinviata per la crisi di governo in corso; ad ogni modo la Web tax italiana mira a tassare i servizi forniti attraverso internet essenzialmente “automatizzati”, quali servizi di analisi, trasmissione ed elaborazione di dati, o della pubblicità sui social media o motori di ricerca online o della promozione di servizi affittando spazi virtuali su un portale che li intermedia, intervenuti tra operatori economici. Sono esclusi i servizi resi nell’ambito del commercio elettronico “indiretto”, ossia quello in cui i mezzi elettronici servono solo ai fini dell’ordine, ma l’oggetto del contratto è un bene fisico.
Per quanto riguarda invece l’ambito oggettivo della “digital service tax” comunitaria questo è individuato nei servizi digitali in cui gli utenti svolgono un ruolo fondamentale nella creazione di valore e che sono i più difficili da quantificare con le norme fiscali attuali, identificati nelle seguenti attività: a) pubblicità “mirata” on line; b) messa a disposizione di piattaforme digitali di interazione tra utenti, anche per le vendite on line; c) cessione di dati personali.
La base imponibile per la Web tax interna (così come quella UE) è rappresentata dal corrispettivo pattuito tra imprese al netto dell’IVA (senza concessione di crediti di imposta). Per quanto concerne le modalità di riscossione e versamento, l’imposta è trattenuta all’atto del pagamento da chi riceve il servizio (committente), con obbligo di rivalsa sui prestatori ed è poi versata dal committente entro il 16 del mese successivo al pagamento.
In tema di accertamento e contenzioso si applicheranno le disposizioni IVA.
La web tax italiana entrerà in vigore a partire dal 2019 nella versione sopra descritta; l’imposta è tuttavia destinata a subire dei correttivi in seguito all’entrata in vigore delle Direttive UE in materia, di cui si è dato conto.
Come anticipato in premessa, il nostro legislatore, con l’ultima legge di Bilancio, ha modificato anche le norme in materia di stabile organizzazione (SO) in modo da poter intercettare i redditi delle imprese prive di una struttura fisica, sia essa materiale che personale nel territorio dello Stato, ma che producono valore nel territorio, come le imprese digitali; e ciò anche al fine di assoggettarle, dal 2019 alla nuova web tax.
In particolare, sono state riscritte le disposizioni di cui all’art. 162 del TUIR (Nota 2), recependo le indicazioni fornite dall’OCSE nell’ambito del progetto BEPS e ampliando le fattispecie ricomprese nella nozione di SO al fine di includervi anche le imprese digitali.
Per ciò che qui interessa, è stato modificato il comma 2 dell’art. 162 del TUIR mediante l’inserimento della lett. f-bis), volta a ricomprendere tra le fattispecie suscettibili di configurare S.O. c.d. positive list “una significativa e continuativa presenza economica nel territorio dello Stato costruita in modo tale da non fare risultare una sua consistenza fisica nel territorio dello stesso”.
La modifica consente appunto di superare il concetto di stabile organizzazione basato sul radicamento territoriale inteso in senso tradizionale, ricollegabile all’insediamento di una struttura fisica nel territorio dello Stato, dando invece rilevo al luogo in cui si svolgono le attività e si produce la ricchezza.
La nuova definizione mira a colpire tutte quelle attività realizzate sostanzialmente via web, che non comportano la necessità, per il loro esercizio, di avere nel territorio dello Stato uno stabilimento o comunque uno dei luoghi sopra evidenziati ed elencati dalla lettera a) alla lettera e), del secondo comma dell’articolo 162 del Tuir.
Contestualmente, è stata abrogata la disposizione del previgente art. 162 comma 5 del TUIR, volta ad escludere la configurabilità di una S.O. nel caso di disponibilità a qualsiasi titolo di “elaboratori elettronici e relativi impianti ausiliari che consentano la raccolta e la trasmissione di dati ed informazioni finalizzati alla vendita di beni e servizi”. Tale disposizione, non richiamata dall’art. 5 del modello OCSE, era stata interpretata dalla prassi e dalla dottrina nazionale nel senso di escludere l’esistenza di S.O. nella mera disponibilità di un sito Internet o di un server (a meno che sia nella piena disponibilità dell’impresa estera e svolga attività significative).
La nuova formulazione della norma può ricondurre alla nozione di SO il caso della disponibilità del sito Internet e del server, se dal contesto in cui opera l’impresa possono essere soddisfatte le condizioni fissate dalla nuova lett. f-bis) del TUIR. Dubbia resta, invece, l’individuazione della S.O. a fronte della mera disponibilità del server o del sito Internet.
Nota 1) In particolare, secondo la proposta di Direttiva, la stabile organizzazione virtuale verrebbe ad esistenza nel momento in cui l’impresa soddisfi almeno uno dei seguenti criteri: 1) ricavi annui nel singolo Stato membro superiori a 7 milioni di euro; 2) utenti registrati nel singolo Stato membro superiori a 100.000 nel periodo d’imposta; 3) numero di contratti B2B superiore a 3.000 nel periodo d’imposta. Le nuove norme sono volte a cambiare il modo in cui gli utili sono attribuiti agli Stati membri per riflettere meglio le modalità con cui le imprese possono creare valore online; il nuovo sistema cerca di garantire un legame effettivo tra il luogo in cui gli utili sono realizzati e il luogo in cui gli utili sono tassati.
La misura potrebbe essere poi integrata con l’approvazione del progetto CCCTB ovvero l’introduzione della base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società; si tratta di una proposta di legge in discussione sin dal 2011 che prevede di modificare la modalità in cui le imprese transfrontaliere sono tassate nell’ambito della UE ed è volta a uniformarne il trattamento fiscale al fine di superare le differenze esistenti tra i 28 regimi di tassazione dei singoli Paesi UE; la base imponibile consolidata comune consentirebbe anche di eliminare le formalità connesse ai prezzi di trasferimento e di evitare ogni forma di doppia imposizione all’interno dello stesso Gruppo.
Nota 2) Si riporta in il nuovo testo dell’art. 162 Tuir come modificato dalla Legge Stabilità 2018, in vigore dal 1° gennaio 2018.
- Fermo restando quanto previsto dall’articolo 169, ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive di cui al decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, l’espressione «stabile organizzazione» designa una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività sul territorio dello Stato.
- L’espressione «stabile organizzazione» comprende in particolare:
- a) una sede di direzione;
- b) una succursale;
- c) un ufficio;
- d) un’officina;
- e) un laboratorio;
- f) una miniera, un giacimento petrolifero o di gas naturale, una cava o altro luogo di estrazione di risorse naturali, anche in zone situate al di fuori delle acque territoriali in cui, in conformità al diritto internazionale consuetudinario ed alla legislazione nazionale relativa all’esplorazione ed allo sfruttamento di risorse naturali, lo Stato può esercitare diritti relativi al fondo del mare, al suo sottosuolo ed alle risorse naturali;
f-bis) una significativa e continuativa presenza economica nel territorio dello Stato costruita in modo tale da non fare risultare una sua consistenza fisica nel territorio stesso.
- Un cantiere di costruzione o di montaggio o di installazione, ovvero l’esercizio di attività di supervisione ad esso connesse, è considerato «stabile organizzazione» soltanto se tale cantiere, progetto o attività abbia una durata superiore a tre mesi.
- Fermi restando i commi da 1 a 3, la dizione “stabile organizzazione” non comprende:
- a) l’uso di una installazione ai soli fini di deposito, di esposizione o di consegna di beni o merci appartenenti all’impresa;
- b) la disponibilità di beni o merci appartenenti all’impresa immagazzinati ai soli fini di deposito, di esposizione o di consegna;
- c) la disponibilità di beni o merci appartenenti all’impresa immagazzinati ai soli fini della trasformazione da parte di un’altra impresa;
- d) la disponibilità di una sede fissa di affari utilizzata ai soli fini di acquistare beni o merci o di raccogliere informazioni per l’impresa;
- e) la disponibilità di una sede fissa di affari utilizzata ai soli fini dello svolgimento, per l’impresa, di ogni altra attività;
- f) la disponibilità di una sede fissa di affari utilizzata ai soli fini dell’esercizio combinato delle attività menzionate nelle lettere da a) ad e).
4-bis. Le disposizioni del comma 4 si applicano a condizione che le attività di cui alle lettere da a) a e) o, nei casi di cui alla lettera f), l’attività complessiva della sede fissa d’affari siano di carattere preparatorio o ausiliario.
- Il comma 4 non si applica ad una sede fissa d’affari che sia utilizzata o gestita da un’impresa se la stessa impresa o un’impresa strettamente correlata svolge la sua attività nello stesso luogo o in un altro luogo nel territorio dello Stato e lo stesso luogo o l’altro luogo costituisce una stabile organizzazione per l’impresa o per l’impresa strettamente correlata in base alle previsioni del presente articolo, ovvero l’attività complessiva risultante dalla combinazione delle attività svolte dalle due imprese nello stesso luogo, o dalla stessa impresa o da imprese strettamente correlate nei due luoghi, non sia di carattere preparatorio o ausiliario, purché le attività svolte dalle due imprese nello stesso luogo, o dalla stessa impresa, o dalle imprese strettamente correlate nei due luoghi, costituiscano funzioni complementari che siano parte di un complesso unitario di operazioni d’impresa.
- Ferme le disposizioni dei commi 1 e 2 e salvo quanto previsto dal comma 7, se un soggetto agisce nel territorio dello Stato per conto di un’impresa non residente e abitualmente conclude contratti o opera ai fini della conclusione di contratti senza modifiche sostanziali da parte dell’impresa e detti contratti sono in nome dell’impresa, oppure relativi al trasferimento della proprietà, o per la concessione del diritto di utilizzo, di beni di tale impresa o che l’impresa ha il diritto di utilizzare, oppure relativi alla fornitura di servizi da parte di tale impresa, si considera che tale impresa abbia una stabile organizzazione nel territorio dello Stato in relazione a ogni attività svolta dal suddetto soggetto per conto dell’impresa, a meno che le attività di tale soggetto siano limitate allo svolgimento delle attività di cui al comma 4 le quali, se esercitate per mezzo di una sede fissa di affari, non permetterebbero di considerare questa sede fissa una stabile organizzazione ai sensi delle disposizioni del medesimo comma 4.
- Il comma 6 non si applica quando il soggetto, che opera nel territorio dello Stato per conto di un’impresa non residente, svolge la propria attività in qualità di agente indipendente e agisce per l’impresa nell’ambito della propria ordinaria attività. Tuttavia, quando un soggetto opera esclusivamente o quasi esclusivamente per conto di una o più imprese alle quali è strettamente correlato, tale soggetto non è considerato un agente indipendente, ai sensi del presente comma, in relazione a ciascuna di tali imprese.
7-bis. Ai soli fini del presente articolo, un soggetto è strettamente correlato ad un’impresa se, tenuto conto di tutti i fatti e di tutte le circostanze rilevanti, l’uno ha il controllo dell’altra ovvero entrambi sono controllati da uno stesso soggetto. In ogni caso, un soggetto è considerato strettamente correlato ad un’impresa se l’uno possiede direttamente o indirettamente più del 50 per cento della partecipazione dell’altra o, nel caso di una società, più del 50 per cento del totale dei diritti di voto e del capitale sociale, o se entrambi sono partecipati da un altro soggetto, direttamente o indirettamente, per più del 50 per cento della partecipazione, o, nel caso di una società, per più del 50 per cento del totale dei diritti di voto e del capitale sociale.
- Nonostante quanto previsto dal comma 7, non costituisce stabile organizzazione dell’impresa il solo fatto che la stessa eserciti nel territorio dello Stato la propria attività per mezzo di un raccomandatario marittimo di cui alla legge 4 aprile 1977, n. 135, o di un mediatore marittimo di cui alla legge 12 marzo 1968, n. 478, che abbia i poteri per la gestione commerciale o operativa delle navi dell’impresa, anche in via continuativa.
- Il fatto che un’impresa non residente con o senza stabile organizzazione nel territorio dello Stato controlli un’impresa residente, ne sia controllata, o che entrambe le imprese siano controllate da un terzo soggetto esercente o no attività d’impresa non costituisce di per sé motivo sufficiente per considerare una qualsiasi di dette imprese una stabile organizzazione dell’altra.