Collezionismo d’arte e tributi tra passione e speculazione

Collezionismo d’arte e tributi tra passione e speculazione

Il collezionismo d’arte, o anche più semplicemente l’acquisto di opere d’arte da parte di privati, è un fenomeno in grande espansione che non trova in Italia, sul piano della disciplina tributaria, una regolamentazione fiscale organica.

Pensando agli attori del mercato si è soliti distinguere tre principali profili che, con una certa semplificazione, possiamo utilizzare per individuare altrettante “categorie fiscali”: il “mercante d’arte”, lo “speculatore occasionale” ed il “collezionista”. Le attività svolte dai primi due sono senz’altro rilevanti ai fini reddituali. In quanto mosse dall’animus lucrandi, infatti, le stesse sono agevolmente riconducibili alle categorie reddituali tipiche del Testo Unico sui Redditi. Per altro verso il collezionista (o appassionato), il cui interesse è culturale e focalizzato alla percezione del così detto “dividendo estetico”, non integra in linea generale alcuna fattispecie reddituale, constatata l’assenza di una finalità lucrativa e, quindi, della “commercialità” dell’attività svolta.

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Sono sempre più numerosi gli studi e i report di settore che evidenziano una crescita del mercato globale dell’arte sulla spinta di fattori che vanno oltre l’interesse estetico, culturale e sociale. Nell’ultimo decennio, infatti, si è assistito ad una parziale trasformazione del mercato in conseguenza della maggiore attenzione degli acquirenti al profilo dell’investimento finanziario. E se dapprima il fenomeno è apparso collegato più alla ricerca di beni rifugio contro i pericoli e gli scossoni del mercato finanziario, oggi gli osservatori parlano di una vera e propria “assets class” nell’ambito delle gestioni dei patrimoni individuali e dei family business.

L’ampliamento del fenomeno economico in relazione all’espansione del mercato, nonché l’evoluzione del quadro psicologico dei suoi attori, rendono di particolare attualità e, al tempo stesso più complesso che in passato, l’inquadramento sul piano tributario delle attività svolte.

Al fine di mettere a fuoco i tratti salienti del collezionista o privato non speculatore occorre brevemente delineare le caratteristiche (diverse) degli altri due attori citati in premessa: il “mercante d’arte” e lo “speculatore occasionale”.

Naturalmente la figura del mercante d’arte è quella forse più agevole da inquadrare nel senso che è tale colui che svolge attività di compravendita di opere con attitudine professionale e finalità lucrativa. In tal caso il soggetto è a tutti gli effetti un imprenditore esercente un’attività intermediaria nella circolazione dei beni o comunque ausiliaria alla stessa (art. 2195 Cod. Civ.). Quanto poi alla classificazione del relativo reddito quale reddito di impresa ai sensi dall’art. 55 del Tuir si ricorda che il requisito dell’organizzazione – che è elemento essenziale ai fini della fattispecie di cui all’art. 2082 Cod. Civ. (imprenditore) – non è necessario per l’appartenenza alla menzionata categoria reddituale. Il mercante d’arte che agisce senza particolari mezzi o collaboratori è comunque soggetto alle regole del reddito di impresa (Nota 1).

Veniamo quindi alla figura dello “speculatore occasionale”. Possiamo subito osservare che è tale colui che, in rapporto al mercante d’arte, difetta del profilo della professionalità. Lo speculatore, infatti, è solito svolgere in modo non abituale e continuativo l’attività di compravendita di opere d’arte e pur tuttavia il suo scopo, come per il mercante, è quello della ricerca di un profitto. I redditi prodotti dallo speculatore rientrano a pieno titolo nella definizione di cui all’art. 67 del Tuir che al comma 1°, lettera i) identifica quali “redditi diversi” quelli “derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente”.

E’ da subito evidente che mentre è relativamente agevole la distinzione tra il mercante d’arte e il collezionista, assai più difficile risulta la distinzione tra quest’ultimo e lo speculatore posto che entrambi agiscono al di fuori di un contesto professionale.

A tal fine occorre approfondire il perimetro di applicazione dell’art. 67 del Tuir appena menzionato osservando che mentre il concetto di “abitualità” traccia il confine rispetto al regime di impresa quello della “commercialità” definisce l’inclusione, o meno, del reddito nell’ambito della categoria dei “redditi diversi”.

Il profilo dell’“abitualità” ha a che vedere con gli elementi fattuali che individuano il carattere professionale dell’attività svolta mentre il secondo attiene all’aspetto psicologico dell’attore perché la commercialità si declina esclusivamente con la presenza di un intento e/o scopo speculativo.

La prassi, la dottrina e la giurisprudenza hanno declinato in concreto gli elementi di fatto che devono essere considerati sintomi della presenza di una abitualità e professionalità e, quindi, di una attività imprenditoriale. Gli stessi sono il giro d’affari, la numerosità dei rapporti intrattenuti, il lasso di tempo tra l’acquisto e la cessione, l’entità significativa in termini di valore delle transazioni effettuate etc. Tali sono gli elementi che consentono di stabilire il carattere abituale e/o professionale dell’attività commerciale esercitata e, quindi, di discriminare la stessa tra “reddito di impresa” e “reddito diverso”.

Il secondo profilo della “commercialità” appare assai più difficile da mettere a fuoco per l’elemento psicologico che lo caratterizza.  Qui rileva, infatti, lo scopo dell’attore. L’attività assume carattere commerciale se diretta alla creazione di un profitto e, quindi, in senso più ampio se mossa da un intento speculativo. Ma posto che le motivazioni posso essere diverse in assenza di un intento speculativo non sarebbe applicabile, oltre chiaramente all’art. 55 del Tuir sul reddito d’impresa (commercialità abituale/professionale), neppure l’art. 67 del Tuir sui redditi diversi, il quale fa riferimento, appunto ad una attività commerciale.

Tale è l’ambito di operatività del collezionista, per così dire, “puro”. Questi, infatti, è mosso principalmente dalla ricerca del soddisfacimento di bisogni personali di tipo estetico e culturale e non ha quale obiettivo quello di generare un profitto né di destinare al mercato gli acquisti fatti. La circostanza poi che, in via del tutto eventuale e/o occasionale, lo stesso possa procedere con la cessione di alcune opere non vale a identificare tale attività quale commerciale. Non è ravvisabile nella normalità dei casi, per il collezionista, un acquisto ed una vendita collegati funzionalmente da un complessivo intento speculativo.

L’operazione in oggetto non risulta classificabile in alcuna categoria reddituale tipica (Nota 2) e, pertanto, sfugge a tassazione rilevando quale semplice dismissione patrimoniale (Nota 3).

Naturalmente il confine tra il collezionista “puro” e lo “speculatore occasionale”, posto che lo stesso soggetto può assumere sia un comportamento da “puro” che un atteggiamento “speculativo” in relazione ad alcuni atti, è tutt’altro che netto. In altri termini dopo aver definito i profili comportamentali e motivazionali che caratterizzano le due figure è chiaro che in concreto l’attività di ciascun operatore potrà presentare elementi ibridi generando qualche incertezza sul regime fiscale da adottare.

Il distinguo è la ricerca di un profitto che traccia l’esistenza di una attività commerciale, anche solo occasionale, e rende rilevante l’attività sul piano reddituale e fiscale classificando l’operatore quale speculatore piuttosto che collezionista.

Occorre quindi accertarsi dello scopo della vendita effettuata dal privato al fine di verificare la presenza di un preordinato intento speculativo. Dalla rassegna della dottrina e della giurisprudenza è possibile trarre una serie di esemplificazioni su tale aspetto: un nesso tra l’acquisto è la vendita potrebbe essere ravvisabile nel caso in cui l’acquisto fosse avvenuto per commissione; altrettanto potrebbe dirsi nel caso in cui l’acquisto fosse effettuato grazie alla provvista generata da un finanziamento da estinguersi mediante una rivendita a stretto giro; infine la durata del possesso è certamente un sintomo significativo al fine di identificare il possibile intento speculativo. Ed in effetti mentre il collezionista che è interessato a mantenere l’opera nell’ambito della propria collezione almeno per un certo periodo di tempo lo speculatore tenderà a cederla quanto prima se ne verifichi l’opportunità di guadagno.

Tra gli elementi che possono essere annoverati al fine di escludere l’intento speculativo si segnalano: la sopraggiunta necessità finanziaria; la cessione effettuata per sopravvenute valutazioni sulla composizione della collezione in base a criteri di carattere culturale; gli scambi effettuati tra collezionisti privati volti ad accrescere e caratterizzare le rispettive collezioni. E’ poi utile evidenziare quanto affermato dalla stessa amministrazione finanziaria che ha escluso l’intento speculativo nel caso della cessione di opere d’arte ricevute a titolo di liberalità (Nota 4). Tale posizione è condivisibile posto che non potrà mai sostenersi che un acquisto avvenuto per donazione o ereditato possa essere preordinato alla successiva cessione.

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E’ interessante, infine, ricordare il regime tributario delle opere d’arte ai fini della imposta sulle successioni. L’Italia, come è noto, rappresenta una sorta di paradiso fiscale ai fini dell’imposta di successione. Se paragonata ai sistemi fiscali di altri paesi quali la Francia, la Germania, il Regno Unito o gli Stati Uniti, dove si registra una tassazione che può arrivare fino al 40%, il sistema italiano con aliquote tra il 4% e l’8% rappresenta un unicum nell’ambito delle economie sviluppate (il Testo Unico dell’Imposta di Successione come modificato dal DL. 3 ottobre 2006 n. 262 prevede, infatti, aliquote variabili tra il 4% e l’8% con la previsione di alcune franchigie in base al grado di parentela).

Il quadro descritto, tuttavia, già di per sé vantaggioso, presenta un ulteriore elemento favorevole con riferimento alle opere d’arte presenti e custodite nelle abitazioni. L’art. 9 del D. Lgs 346/90, infatti, nel definire l’attivo ereditario quale l’insieme di tutti i beni e diritti che formano oggetto della successione, determina forfettariamente il valore di denaro gioielli e mobilia in un importo pari al 10% del valore dell’asse ereditario netto. La stessa disposizione prosegue precisando che si considera mobilia l’insieme dei beni destinati all’uso o all’ornamento delle abitazioni, compresi i beni culturali non sottoposti a vincolo quali beni di particolare interesse artistico, storico o archeologico. Nella definizione di mobilia, dunque, rientrano le opere d’arte e il sistema di forfetizzazione potrebbe risultare molto conveniente nel caso in cui il valore delle opere d’arte fosse superiore al 10% del valore del patrimonio ereditato (Nota 5). La forfetizzazione del 10% si non applica se i beni sono custoditi in caveau, gallerie e musei. Da ultimo, a completare il quadro, Vi è l’esclusione dall’attivo ereditario dei beni culturali di particolare interesse artistico, storico o archeologico a condizione che i beni in oggetto non siano alienati prima che siano decorsi cinque anni dall’apertura della successione (Nota 6).

 

Nota 1) La circostanza che lo stesso sia dotato, o meno, di una specifica organizzazione per lo svolgimento della sua attività potrà risultare rilevante ai fini dell’applicazione, o meno, dell’imposta sul reddito delle attività produttive (Irap).

Nota 2) Occorre infatti ricordare che con l’entrata in vigore del Testo Unico sulle Imposte sui Redditi (1° gennaio 1988) è stata superata l’impostazione contenuta nel previgente DPR 597/73 caratterizzato dalla generale rilevanza, ai fini della tassazione, di qualsiasi reddito prodotto. L’art. 1 del citato decreto, infatti, indicava quale presupposto di imposta “il possesso di redditi, in denaro o in natura, continuativi od occasionali, provenienti da qualsiasi fonte”. Ad assicurare la rilevanza, ai fini dell’assoggettamento ad imposizione, di ogni reddito prodotto, interveniva poi l’art. 80 intitolato agli “Altri Redditi” il quale stabiliva che “Alla formazione del reddito complessivo…concorre ogni altro reddito diverso da quelli espressamente considerati dalle disposizioni del presente decreto”. In contrapposizione al sistema previgente la riforma della fine degli anni ’80 ha superato questa impostazione procedendo, da un lato, a riscrivere l’art. 1 che ora prevede quale presupposto d’imposta “il possesso di redditi in denaro e in natura rientranti nelle categorie indicate all’art. 6” e, dall’altro, ad eliminare la disposizione onnicomprensiva e, per così dire, di “chiusura” contenuta nel menzionato art. 80 del DPR 597/73. In definitiva, quindi, si è passati da un sistema impositivo che dava rilevanza a fattispecie reddituali tipiche ed atipiche ad un sistema interamente tipizzato che impedisce ogni apertura nei confronti di fattispecie non previste e non espressamente contemplate nell’ambito delle singole categorie reddituali. Per affermare l’assoggettamento ad imposta di una attività che genera un incremento patrimoniale l’operatore deve quindi chiedersi se esso sia riconducibile ad una delle categorie di reddito previste dall’art. 6 del Tuir e ove questo non sia possibile per carenza dei requisiti rispetto alle categorie tipizzate deve concludere per la non imponibilità di tale fattispecie.

Nota 3) Questa è senz’altro l’opinione più diffusa e a nostro avviso condivisibile. Si veda sul punto anche la Cassazione Civile, 20 ottobre 2011, n. 21776. Si segnala tuttavia che non mancano coloro i quali hanno rilevato che anche l’attività del collezionista darebbe origine al conseguimento di redditi diversi. Questi sostengono che l’esistenza del requisito della commercialità dell’attività è insito nella circostanza della presenza di atti di acquisto e di valorizzazione della collezione pressoché immancabilmente presenti in ogni situazione. Si vede sul punto P. Scarioni, P Agelucci, La Tassazione delle Opere d’Arte, Egea, Milano, 2014.

Nota 4)Si veda sul punto la Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate del 24 gennaio 2001, n. 5/E.

Nota 5) Qualora detto valore fosse inferiore risulterebbe poi legittimo, a seguito di redazione di apposito inventario, disapplicare la presunzione con la conseguenza che il valore così determinato andrebbe sommato al valore degli ulteriori beni dell’attivo ereditario. Si veda la Risoluzione Ministeriale 212/E del 15 luglio 1995 e la sentenza n. 437 del 3 marzo 2015 della Commissione Tributaria Regionale di Bari.

Nota 6) Il beneficio in oggetto è sottoposto ad alcune condizioni tra le quali quella per cui il vincolo risulti anteriormente alla apertura della successione e siano assolti sino a quella data i connessi obblighi di conservazione e protezione.