E’ sempre più diffusa la prassi delle società di far ricorso ad apporti da parte dei soci per far fronte al proprio fabbisogno finanziario, soprattutto alla luce della crisi economica e della stretta creditizia degli ultimi anni. E’ pertanto utile esaminare la disciplina dei finanziamenti soci con particolare riguardo ai profili tributari, al fine di commentare alcune recenti posizioni dell’Agenzia delle Entrate e della giurisprudenza.
Anzitutto, i versamenti che i soci effettuano a favore della società debbono essere inquadrati correttamente sotto il profilo giuridico, al fine di distinguere gli apporti effettuati dai soci a titolo di finanziamento (mutuo) che danno diritto alla restituzione, dai conferimenti/apporti di capitale che sono attratti alla disciplina del capitale sociale. Si segnala sul punto la recente pronuncia della Cassazione n. 20978 del 12 agosto 2018 secondo la quale la qualificazione di tali erogazioni “dipende dall’esame della volontà negoziale e la relativa prova, di cui è onerato il socio” che chiede la restituzione delle somme erogate “deve trarsi dal modo in cui il rapporto è stato attuato in concreto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi”. La Corte ha anche precisato che, in mancanza di una chiara manifestazione di volontà delle parti, si deve far riferimento alla qualificazione dei versamenti quale risultante dal bilancio della società, posto che questo è soggetto all’approvazione da parte dei soci.
La questione è sostanziale, stante la differente natura dei finanziamenti rispetto ai versamenti in conto capitale. Come noto, per “finanziamenti soci” si intendono le erogazioni effettuate dai soci a favore della società a titolo di mutuo, ai sensi degli artt. da 1813 a 1822 c.c.; tali versamenti rappresentano un debito della società verso il socio che ha diritto alla restituzione del capitale versato, oltre agli interessi eventualmente pattuiti (Nota 1). In sede di bilancio i “finanziamenti” vanno rappresentati nel passivo dello Stato Patrimoniale (nella voce D3 – debiti verso soci per finanziamenti).
Per contro, sono qualificati come “conferimenti” i versamenti effettuati dai soci senza obbligo di restituzione da parte della società che concorrono a formare il patrimonio netto della medesima. Tali versamenti sono definiti dal Consiglio Nazionale del Notariato (Studio 3658 del 11.12.2011) come «apporti patrimoniali effettuati dai soci nei confronti della società al fine di dotarla di ulteriore capitale di rischio senza sottoporre le somme relative al regime vincolistico proprio del capitale; è pacificamente ammessa la utilizzabilità di tali somme per ripianare le perdite o per aumentare gratuitamente il capitale». Da un punto di vista contabile i conferimenti vanno indicati nel passivo all’interno della voce A-VII del Patrimonio Netto “Altre Riserve”, nella idonea riserva in funzione della loro finalità (“versamento a fondo perduto” o “versamento in conto capitale”, ecc..).
In ambito societario, con riguardo alle società a responsabilità, occorre tener conto di una disposizione specifica sui finanziamenti soci contenuta nell’art. 2467 c.c. (Nota 2). Tale norma, volta ad arginare il fenomeno della sottocapitalizzazione, regola l’ipotesi di restituzione dei finanziamenti nel caso in cui la società risulti in situazione di difficoltà, prevedendo che i prestiti concessi dai soci alla società siano postergati e possano essere rimborsati solo dopo la soddisfazione dei creditori sociali; se il rimborso avviene nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento deve essere restituito. La postergazione opera soltanto con riferimento a quei finanziamenti in qualsiasi forma, effettuati in un momento in cui, anche in considerazione dell’attività esercitata dalla società partecipata, risulti un indebitamento eccessivo in rapporto al patrimonio netto, ovvero in una situazione finanziaria nella quale sarebbe stato ragionevole eseguire un conferimento in conto capitale piuttosto che un prestito a titolo di finanziamento.
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Ciò premesso, alla luce dell’inquadramento giuridico sopra rappresentato, si intende focalizzare l’attenzione su alcuni profili controversi relativi al trattamento fiscale dei soli “finanziamenti soci”, distinguendo i diversi ambiti impositivi: imposizione diretta (sia in capo al socio che alla società) e imposizione indiretta (IVA e imposta di registro).
Sotto il profilo delle imposte dirette, tralasciando di soffermarsi sulla disciplina generale (Nota 3), ciò che interessa è analizzare gli effetti di un’eventuale rinuncia al credito da parte del socio; tale evento può determinare, infatti, rilevanti conseguenze in termini di tassazione sia in capo alla società, alla luce della recente disposizione di cui al comma 4-bis dell’art. 88 Tuir (aggiunto dall’art. 13, D.Lgs. n. 147/2015), che in capo e al socio, in forza della tesi del cosiddetto “incasso giuridico” sostenuta dall’Agenzia delle Entrate.
Sul primo aspetto, si ricorda che la disposizione di cui al comma 4-bis dell’art. 88 Tuir, in vigore dal periodo d’imposta 2016, stabilisce che “la rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva per la parte che eccede il relativo valore fiscale”. In forza di tale norma la rinuncia al credito da parte del socio non ha rilevanza fiscale solo per l’importo corrispondente al valore fiscalmente riconosciuto del credito. Per contro, l’eventuale differenza positiva tra il valore nominale del debito venuto meno e il valore fiscale del credito corrispondente concorre a formare il reddito imponibile della società debitrice quale sopravvenienza attiva. In altri termini, la rinuncia da parte di un socio a un credito avente un valore fiscale nullo comporta la tassazione integrale della corrispondente sopravvenienza attiva in capo alla società partecipata. Per contro, in capo al socio, ai sensi dell’art. 94, comma 6, TUIR il costo fiscale della partecipazione nella società debitrice si incrementa per un importo pari al valore fiscale del credito oggetto di rinuncia (Nota 4).
L’ambito applicativo della disposizione in esame presenta diversi profili di incertezza, nonostante i chiarimenti forniti dall’Agenzia con risoluzione 124/E del 13 ottobre 2017; le maggiori perplessità riguardano l’ambito soggettivo di applicazione, come affermato anche da Assonime nella circolare n. 17/2017.
Il tenore letterale della norma induce a ritenere che la nuova disciplina si applichi ai crediti da chiunque vantati e successivamente rinunciati ma tale conclusione non è condivisibile.
Ai fini interpretativi è utile far riferimento alla ratio della disposizione in commento che è quella di evitare salti d’imposta e contrastare manovre elusive consistenti nell’acquisizione da parte dei soci di crediti preesistenti dalla società, di dubbia esigibilità e per prezzi inferiori al relativo valore normale, tali da generare perdite deducibili, a fronte della esenzione da tassazione della successiva rinuncia al credito in capo alla società, con evidente asimmetria a livello impositivo.
Con la risoluzione 124/E/2017 citata, l’Agenzia ha ammesso che la disposizione di cui al comma 4-bis dell’art. 88 Tuir si applica solo in caso di socio imprenditore; per contro la stessa non trova applicazione con riferimento alle persone fisiche non esercenti attività d’impresa, non essendo ravvisabile, nei loro confronti, alcuna differenza tra il valore fiscale e nominale dei crediti rinunciati e, quindi alcun intento elusivo.
In particolare, nel caso di un socio persona fisica che rinunci ai crediti vantati nei confronti della società partecipata, maturati a seguito di un finanziamento precedentemente concesso, è ancora più evidente come in effetti non vi sia alcun salto d’imposta, sia perché il credito non è stato negoziato in precedenza dal suo titolare, sia perché il socio non ha i requisiti per portare in deduzione l’eventuale minusvalenza subita. Pertanto, la società partecipata può beneficare in questi casi della completa neutralità fiscale della rinuncia anche in assenza di dichiarazione sostitutiva di atto notorio circa il valore fiscale del credito.
Per contro, resta aperta la questione dell’applicazione della norma nell’ambito di finanziamenti infragruppo, per quanto anche in questi casi sia difficile ravvisare un intento elusivo in capo al socio che non ha precedentemente acquistato il credito; la risoluzione non chiarisce alcunché in merito.
La rinuncia al proprio credito può avere effetti penalizzanti anche sui soci, secondo la tesi controversa del cosiddetto “incasso giuridico” sostenuta dall’Agenzia delle Entrate (Circolare n. 73/E del 27.05.1994) e avallata da parte della giurisprudenza anche di legittimità (Nota 5).
Secondo l’ufficio, il credito oggetto di rinuncia da parte del socio, se correlato a redditi tassati per cassa (compensi dei soci amministratori e interessi relativi a finanziamenti) va considerato come figurativamente incassato e, dunque, per il socio creditore scatta il presupposto per l’imposizione del relativo reddito; di conseguenza, il valore fiscale del credito virtualmente incassato diventerebbe pari al valore nominale dello stesso (incrementandosi di pari importo il costo fiscale della partecipazione) e per la società debitrice non sorgerebbe alcuna sopravvenienza attiva imponibile ai sensi dell’art. 88, comma 4-bis. L’interpretazione fornita dall’Agenzia comporta sempre o, perlomeno nella maggioranza dei casi, il sorgere di un onere tributario a carico del socio creditore.
La tesi dell’incasso giuridico sopra esaminata, che di fatto trasferisce l’imposizione dalla società debitrice al socio creditore, è tuttavia criticata dalla dottrina più autorevole (per tutti Giulio Andreani in Il fisco n. 27 del 2017, pag 1-2620) in quanto ritenuta in contrasto con la ratio delle citate modifiche legislative introdotte con il D.Lgs. n. 147/2015 alla formulazione dell’art. 88 del T.U.I.R. e considerata non condivisibile sotto il profilo sistematico. Tale tesi è criticabile anche sotto il profilo dell’equità e del principio di capacità contributiva in quanto finisce per tassare un reddito che il socio creditore non ha materialmente incassato.
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Da ultimo, è interessante passare in rassegna alcuni profili relativi alla disciplina delle imposte indirette dei finanziamenti soci, con particolare attenzione a quelli infragruppo. Tralasciando la disciplina Iva che non presenta particolari problematiche (Nota 6) ci si sofferma piuttosto su alcuni aspetti più delicati relativi all’imposta di registro.
In primo luogo, occorre prestare particolare attenzione alle operazioni di finanziamento qualora il contratto di mutuo risulti da atto scritto, specie nei casi di socio finanziatore non esercente attività di impresa (Nota 7). In tali casi, infatti, per il principio di alternatività fra IVA e registro, il contratto di mutuo è soggetto a registrazione nel termine fisso di venti giorni dalla stipula e sconta l’imposta proporzionale, nella misura del 3%, in base al disposto dell’art. 9 della Tariffa, Parte I, allegata al DPR 131/1986. L’assoggettamento all’imposta di registro in misura proporzionale può evitarsi nel caso di atto posto in essere sotto forma di corrispondenza commerciale con apposizione delle firme su documenti separati; in tal caso, infatti l’imposta di registro è dovuta solo in caso d’uso ed in misura fissa pari a € 200,00.
Circa i contratti formati per corrispondenza, si segnala un recente caso affrontato dalla giurisprudenza. I giudici della Corte di Cassazione, con sentenza n. 24268/2015 depositata il 27.11.2015, hanno affrontato un contenzioso in cui il finanziamento soci infragruppo infruttifero risultava dallo scambio con raccomandata a mano della proposta e dell’accettazione del finanziamento, in cui l’Agenzia delle Entrate contestava il mancato pagamento dell’imposta di registro al 3%, in quanto l’atto non si sarebbe formato mediante “corrispondenza commerciale” essendo mancata la materiale spedizione degli atti. Nel caso di specie i giudici della Corte hanno cassato la sentenza della CTR dell’Umbria (sentenza n. 37/2010 del 24.10.2010) che aveva accolto le ragioni dell’Agenzia delle Entrate. La Corte, pur dando ragione al contribuente non si è tuttavia espressa sulla questione principale della vicenda relativa alla definizione di “corrispondenza commerciale”, se debba intendersi comprensiva oltre che degli atti spediti a mezzo posta o PEC, anche di quelli scambiati a mano, prassi contestata invece dall’Agenzia delle Entrate.
Un’ultima questione degna di nota, sempre nell’ambito dell’imposta di registro, attiene all’applicazione del cosiddetto “principio di enunciazione”. Secondo la giurisprudenza della Cassazione (sentenza del 30.6.2010 n. 15585 e sentenze del 2008 n. 14694, 11756, 11757, 11758, 11759 e n. 6956) pur in presenza di un finanziamento soci non registrato, in quanto risultante da accordo verbale o formalizzato per corrispondenza, qualora lo stesso venga richiamato in atti pubblici soggetti a registrazione – come un successivo atto di assemblea straordinaria dal quale risulti la rinuncia al credito fine di coprire le perdite della società – il finanziamento soci è soggetto ad imposta di registro nella misura del 3%. Ciò ai sensi dell’art. 22 comma 1 del DPR 131/1986, “se in un atto sono enunciate disposizioni contenute in atti scritti o contratti verbali non registrati posti in essere fra le stesse parti intervenute nell’atto che contiene l’enunciazione, l’imposta si applica anche alle disposizioni enunciate“. Nonostante detta conclusione sia stata oggetto di alcune critiche da parte della dottrina e della giurisprudenza (Nota 8), vi è il rischio concreto che il finanziamento soci indicato in una delibera di aumento di capitale sociale possa essere soggetto ad imposta di registro in misura proporzionale. Per ovviare a questo pericolo è consigliabile formalizzare la rinuncia al di fuori di atti soggetti a registrazione in modo da evitare il rischio di assoggettamento ad imposta registro proporzionale.
Nota 1) La legge pone specifici vincoli alla raccolta di fondi presso i soci, stabiliti dal Testo unico bancario (art. 11 D Lgs 385/93 TUB) e specificati con la deliberazione del 19 luglio 2005 del Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio (CICR) che disciplina appunto la “Raccolta del risparmio da parte di soggetti diversi dalle banche”; tali disposizioni prevedono che le «società possono raccogliere risparmio presso i soci, con modalità diverse dall’emissione di strumenti finanziari, purché tale facoltà sia prevista nello statuto» e che la raccolta possa essere effettuata «esclusivamente presso i soci che detengano almeno il 2 per cento del capitale sociale risultante dall’ultimo bilancio approvato e siano iscritti nel libro soci da almeno tre mesi». Tali condizioni non sono richieste per le società di persone, né per le società con una ristretta compagine sociale che facciano ricorso al finanziamento soci in via occasionale, previa trattativa privata con il socio medesimo. Le operazioni di finanziamento da parte di soci che non rispettino le sopra menzionate prescrizioni normative sono sanzionate dal Testo Unico Bancario sia penalmente che con sanzioni pecuniarie.
Nota 2) La disciplina di cui all’art. 2467 c.c. trova applicazione anche in ambito di gruppo, ai sensi del disposto dell’art. 2497 quinquies c.c. con riferimento ai “finanziamenti effettuati a favore della società da chi esercita attività di direzione e coordinamento nei suoi confronti o da altri soggetti ad essi sottoposti”. Dottrina e giurisprudenza non sono concordi se l’art. 2467 c.c. sia applicabile a tutte le società di capitali. Tra chi sostiene l’applicabilità alle Spa, perlomeno quelle “chiuse” in giurisprudenza si vedano le sentenze della Cassazione n. 16291 del 20.06.20148 e n. 14056 del 07.07.2015, e la pronuncia del Tribunale di Milano del 28.07.2015 secondo cui è necessario prendere in considerazione l’effettiva compagine sociale in quanto l’art. 2467 c.c. si applicherebbe anche ai finanziamenti effettuati a favore di Spa di modeste dimensioni e con compagini familiari o ristrette.
Nota 3) Ai sensi dell’art. 46 comma 1 del TUIR «le somme versate alla società commerciali …dai loro soci …si considerano date a mutuo se dai bilanci …di tali soggetti non risulta che il versamento è stato fatto ad altro titolo»; si tratta di una disposizione di natura presuntiva, secondo la quale, ai fini delle imposte sui redditi, le somme versate dai soci alla società si considerano date a mutuo, ergo fruttifere di interessi; ciò a condizione che dai bilanci non risulti che il versamento sia stato fatto ad altro titolo e rimanendo impregiudicata la facoltà per i contraenti di concordarne la natura non onerosa (ovvero non fruttifera di interessi in favore del socio mutuante). Con riguardo alla misura degli interessi passivi che la società mutuataria si trova a dover corrispondere ai soci mutuanti, l’art. 45, comma 2, del TUIR, prevede che «per i capitali dati a mutuo gli interessi, salvo prova contraria, si presumono percepiti alle scadenze e nella misura pattuite per iscritto» e che «se la misura non è determinata per iscritto gli interessi si computano al saggio legale» di cui all’art. 1284 c.c.. In capo al socio gli interessi attivi corrisposti dalla società vanno assoggettati a tassazione come (i) redditi d’impresa, se i percipienti sono soggetti imprenditori ovvero (ii) come redditi di capitale, se percepiti al di fuori dell’esercizio dell’attività d’impresa (ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. a), del TUIR). In tale ultimo caso, in capo al percipiente sorge l’obbligo di dichiarazione annuale dei redditi nonché trova applicazione una ritenuta a titolo di acconto nella misura del 26% (a titolo di imposta nella misura del 12,5% se il socio risiede all’estero, salvo applicazione del regime di esenzione introdotto dalla direttiva interessi canoni 2003/49/CE).
In capo alla società finanziata gli interessi passivi corrisposti al socio sono deducibili, ai fini IRES, nei limiti previsti dall’art. 96 del DPR 917/1986; tale norma prevede, come noto, per i soggetti IRES che gli interessi passivi «sono deducibili in ciascun periodo d’imposta fino a concorrenza degli interessi attivi e proventi assimilati» e che «l’eccedenza è deducibile nel limite del 30 per cento del risultato operativo lordo della gestione caratteristica» “ROL”. Ai fini Irap gli interessi connessi ai finanziamenti dei soci, non rilevano in quanto non entrano nel calcolo della base imponibile Irap, essendo classificati nella voce C.17 – Interessi ed altri oneri finanziari del Conto economico.
Nota 4) Tale valore deve essere comunicato dal socio alla società partecipata, all’atto della rinuncia, mediante dichiarazione sostitutiva di atto notorio avente data certa; in mancanza, il costo si assume pari a zero; l’onere di acquisire l’attestazione sul costo fiscale del credito è previsto in ogni caso e dunque anche per i crediti il cui valore nominale coincide con quello fiscale; nel caso di rinunce parziali a crediti con valore disallineato rispetto al costo, non è chiaro come calcolare la parte di quest’ultimo che viene “consumata” prioritariamente.
Nota 5) Secondo la Circ 27 maggio 1994 n. 73/E/430 “tutti i crediti ai quali il socio rinuncia vanno portati ad aumento del costo della partecipazione, ai sensi dell’art. 61, comma 5, del T.U.I.R., i quali per la società non costituiscono sopravvenienze attive, così come dispone l’art. 55, comma 4, del T.U.I.R. Naturalmente la rinuncia ai crediti correlati a redditi che vanno acquisiti a tassazione per cassa (quali, ad esempio, i compensi spettanti agli amministratori e gli interessi relativi a finanziamenti dei soci) presuppone l’avvenuto incasso giuridico del credito e quindi l’obbligo di sottoporre a tassazione il loro ammontare, anche mediante applicazione della ritenuta di imposta”.
Di recente, anche la Cassazione (sentenza n. 7636/2017 su interessi su finanziamenti mentre le pronunce n. 26842/2014 e n. 1335/2016 in tema di rinuncia TFM da parte del socio-amministratore) si è allineata all’orientamento dell’Amministrazione finanziaria, sostenendo che la rinuncia al credito da parte del socio genera i medesimi effetti fiscali conseguenti all’incasso del credito e al riversamento della somma corrispondente a titolo di apporto di capitale (incasso giuridico), atteso che attraverso l’atto di remissione del debito il socio, pur non avendo materialmente percepito alcuna somma, dispone giuridicamente del credito, utilizzandolo per patrimonializzare la società partecipata. In senso contrario si segnala Ctr Lombardia n. 354/2018 su un caso di rinuncia al credito per interessi maturati su di un finanziamento soci, sentenza che ha stigmatizzato l’applicazione generalizzata della tesi dell’incasso giuridico del credito rinunciato, ritenuta in conflitto con il principio generale di capacità contributiva.
Nota 6) Come noto, per i soggetti IVA (socio finanziatore che svolge attività imprenditoriale) i finanziamenti riconducibili al contratto di mutuo sono operazioni che di fatto non sono assoggettate all’imposta sul valore aggiunto. Più precisamente occorre distinguere fra finanziamenti fruttiferi ed infruttiferi: a) la prestazione di servizi di finanziamento fruttifero costituisce un’operazione rilevante ai fini del tributo, ai sensi dell’art. 3, comma 2, n. 3), del DPR n. 633/1972, ma l’imposta non è dovuta ai sensi dell’art. 10, comma, n. 1), del DPR n. 633/1972 che configura come esenti «le prestazioni di servizi concernenti …le operazioni di finanziamento»; b) il finanziamento infruttifero è operazione fuori campo Iva. I finanziamenti concessi alla società da soci non imprenditori, invece, sono sempre operazioni fuori campo di applicazione IVA, per carenza del presupposto soggettivo ai sensi del combinato disposto dagli artt. 1 e 4 del DPR 633/1972 e quindi sempre soggetti a imposta di registro.
Nota 7) Nel caso di socio imprenditore, anche ai fini del registro, si distingue fra finanziamento fruttifero e infruttifero: a) il prestito fruttifero è un’operazione soggetta all’IVA, ancorché esente ai sensi dell’ art. 10 del DPR 633/1972, sicché il relativo contratto sconta l’imposta di registro, solo in caso d’uso (a meno che non sia redatto in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata), nella misura fissa ora pari a € 200,00; b) il prestito infruttifero è operazione fuori campo IVA e, se contratto in forma scritta, sconta l’imposta di registro in misura proporzionale.
Nota 8) Si veda in senso contrario Consiglio nazionale del Notariato Studio 208-2010-T del 14 dicembre 2011 e sentenza CTP Piacenza n. 71/2/14 del 18 febbraio 2014.