Il leveraged buy out (LBO) descrive una serie di operazioni finalizzate all’acquisto di una società/azienda (cd target) sfruttando la capacità di indebitamento della stessa. L’LBO è uno strumento da tempo assai diffuso nella prassi internazionale mentre è stato poco utilizzato in Italia a motivo di diverse incertezze sul piano normativo. Ed in effetti tale schema ha trovato solo recentemente piena cittadinanza nel nostro ordinamento grazie all’introduzione di una disciplina ad hoc in ambito societario ed al “riconoscimento” della rilevanza economica del “fenomeno” leverage da parte della Amministrazione Finanziaria, avvenuta con la Circolare n. 6E del 30 marzo 2016.
L’elemento di interesse dello schema LBO è rappresento dal fatto che lo stesso fornisce una soluzione a coloro i quali intendano rilevare un complesso aziendale pur non disponendo a titolo personale dei mezzi finanziari necessari per tale finalità.
Nello specifico LBO è in grado di rispondere al meglio quando target è l’azienda per la quale il soggetto in questione lavora occupando un ruolo chiave all’interno dell’organizzazione aziendale; di poi, altro elemento che favorisce l’impiego di questo strumento, è la posizione finanziaria dell’azienda che non deve essere appesantita da una significativa esposizione bancaria; e, infine, costituisce fattore rilevante la previsione di flussi economici e finanziari positivi e sufficientemente stabili nel tempo.
Che dire se le circostanze sopra descritte ricorressero proprio quando l’azienda (target) è in procinto di affrontare la fase del ricambio generazionale? Ed, al contempo, fossero presenti diversi soggetti (eredi) che vantano un interesse legittimo sul patrimonio aziendale?
Non è poi un caso infrequente che l’elevato valore oggettivo dell’azienda fa sì che la stessa rappresenti l’asset principale nell’ambito del patrimonio di famiglia, ciò che rende difficoltosa l’assegnazione ad un erede senza che risultino incise le quote di legittima degli altri aventi diritto (Nota 1). Di poi occorre fare i conti con il principio del divieto dei “patti successori”, divieto che rende difficoltoso, anche all’imprenditore che avesse le idee chiare sul futuro della propria azienda, pianificare in vita il passaggio generazionale (Nota 2).
E’ in questo contesto che lo schema del LBO può utilmente venire in soccorso.
Nella prassi anglosassone si parla a tal proposito di Family Buy Out (FBO), che altro non è che il leverage inserito nel contesto della successione di impresa. Nel caso di specie, quindi, è l’erede “designato”, con un ruolo attivo e di primo piano all’interno dell’azienda, che rileva la totalità (o il controllo) della stessa, mantenendo l’investimento nella propria “quota ideale” ma liquidando a valori di mercato le “quote” spettanti agli altri eredi.
Passiamo ora alla descrizione dello schema dell’LBO/FBO.
Lo stesso prevede:
- La costituzione di una società new-co (o Special Purpose Vehicle) mediante un minimo apporto di mezzi propri;
- Il ricorso da parte di new-co a un prestito (leverage) finalizzato all’acquisto di target;
- L’acquisto di target da parte di new-co, in forma diretta o tramite l’acquisto delle partecipazioni;
- Il rilascio, quale unica forma di garanzia del finanziamento bancario, del pegno sulle partecipazioni di new-co e di target (quest’ultimo chiaramente solo nel caso in cui target sia acquistata tramite le partecipazioni);
- La fusione di new-co e di target da realizzarsi nella forma diretta o inversa (target incorpora new-co) e l’assunzione in target del debito contratto da new-co.
In passato, come ricordato all’inizio, si è discusso a lungo sulla liceità di tale schema il cui risultato finale appariva in contrasto con alcune norme del diritto societario interno poste a tutela dell’integrità del patrimonio aziendale e degli interessi dei creditori.
I rilievi critici di dottrina e giurisprudenza hanno posto l’attenzione in particolare sugli artt. 2357 e 2358 del cod. civ, tutt’ora vigenti nel nostro ordinamento: la prima norma impone alle società dei limiti per l’acquisto di “azioni proprie” (acquisto peraltro vietato per il tipo di società a responsabilità limitata); mentre la seconda introduce il divieto della c.d. assistenza finanziaria.
Oggi non è più utile soffermarsi su tali “argomentazioni” posto che il legislatore è intervenuto per introdurre una disciplina ad hoc diretta a regolamentare, nell’interesse dei creditori, la fase finale dell’LBO/FBO, quella della fusione tra new-co e target.
Il D. Lgs, n. 6/2003, con il quale la riforma (Nota 3) è stata attuata, ha introdotto l’art. 2501-bis c.c. intitolato “fusione a seguito di acquisizione con indebitamento” che prevede una disciplina specifica del fenomeno LBO e pone a carico degli amministratori una analisi sulla sostenibilità del debito “incorporato” e, a carico dell’esperto indipendente, l’attestazione circa la ragionevolezza delle indicazioni fornite dall’organo amministrativo.
Dal punto di vista tributario occorre osservare che l’amministrazione finanziaria italiana per lungo tempo non ha riconosciuto la valenza economica di tali operazioni e ne ha contestato gli effetti sul piano del trattamento fiscale di alcune variabili: la deduzione degli interessi passivi ed il riporto delle perdite.
In particolare l’amministrazione finanziaria considerava gli interessi passivi generati dal leverage indeducibili in capo alla new-co in quanto, in tesi, priva di un’attività operativa vera e propria e, in più, in base all’art. 96 del Tuir, caratterizzata da un ROL incapiente per la deduzione degli stessi; di poi, post fusione, l’Agenzia contestava l’inerenza del costo finanziario e la deducibilità in capo alla società target (parere del Comitato consultivo n. 4 del 8.05.2003).
Si osserva che l’opinione della giurisprudenza tributaria (Cfr. Cassazione Sentenza n. 1372 del 21.01.2011) è stata di verso contrario rispetto alla posizione assunta dall’Agenzia e, già nel vigore della vecchia norma antielusiva contenuta all’art. 37bis del DPR 600/73, ha riconosciuto le valide ragioni economiche sottostanti le operazioni di LBO in coerenza con il mutato quadro normativo introdotto dalla riforma del diritto societario.
Tale orientamento è stato confermato dalla giurisprudenza anche nell’ambito della nuova disposizione sull’abuso del diritto di cui all’art. 10bis alla legge n. 212/2000, introdotta ad opera del D. Lgs. n. 128 del 05.08.2015 (Nota 4) (Cfr. CTP di Milano pronunce n. 9999 e n. 1002/24/15 depositate in 10 dicembre 2015). Le sentenze in commento hanno confermato la non elusività delle operazioni di LBO se finalizzate alla realizzazione di un cambiamento della compagine sociale (Nota 5).
L’Agenzia delle Entrate ha adeguato il proprio orientamento solo di recente con la Circolare n. 6E del 30 marzo 2016 che ha affrontato ad ampio spettro le operazioni di LBO ricorrenti nella pratica e ha riconosciuto che le stesse rispondono a finalità extra fiscali e sono legittime anche con riferimento agli effetti tributari. Tale orientamento è confermato sia nel caso in cui lo schema si concluda con la fusione fra società veicolo e target (merger leverage buy out o MLBO), sia che non si dia luogo alla fusione ma solo all’esercizio dell’opzione per il consolidato fiscale, da parte di new-co e di target, con l’effetto di produrre analogo impatto sul piano tributario (Nota 6).
Occorre solo segnalare che l’Agenzia delle entrate, nella circolare menzionata, esprime una riserva in merito alle operazioni che presentino particolari profili di “artificiosità” identificati nei casi in cui all’operazione abbiano preso parte “i medesimi soggetti che, direttamente o indirettamente, controllano la società target”. Il riferimento è alle cosiddette operazioni “circolari” nelle quali di fatto si mantiene una certa continuità fra la compagine originaria della società obiettivo e la composizione della compagine sociale della new-co che acquisisce il controllo della prima.
Sul punto occorre segnalare il commento di Assonime circa il fatto che una interpretazione troppo restrittiva del testo della circolare non sarebbe in linea con la ratio dell’intervento chiarificatore dell’Agenzia e, conseguentemente, è ragionevole escludere ogni profilo di elusività ogni qualvolta a seguito del LBO si consegua comunque un “change of control”, anche nella forma di transizione da un controllo congiunto ad un controllo individuale (e viceversa); e ciò deve essere confermato anche nei casi in cui vi sia, come talvolta accade, un certo grado di continuità tra i soggetti partecipanti prima e dopo l’operazione in commento.
Da ultimo occorre segnalare che l’Agenzia ha affrontato anche il tema delle speciali disposizioni antielusive in materia di riporto delle perdite e interessi passivi, di cui all’articolo 172, comma 7, del TUIR (Nota 7).
Rilevato che nelle operazioni di LBO la società newco raramente soddisfa i parametri richiesti dalla normativa, bloccando di fatto l’opportunità del riporto delle perdite, l’Agenzia afferma che tali disposizioni possono essere disapplicate previo ricorso all’interpello ai sensi dell’articolo 11, comma 2, della legge n. 212 del 2000 (Statuto del contribuente). Nell’istanza deve essere dimostrato che le eccedenze di interessi passivi e di perdite (di cui si chiede il riporto) sono esclusivamente quelle relative ai finanziamenti ottenuti dalla new-co per porre in essere l’LBO.
Sul punto è interessante la posizione di Assonime la quale, con la circolare n. 6/2016, ha osservato che il mancato esperimento della procedura di interpello non può comunque comportare il disconoscimento della deducibilità di tali costi ma semplicemente l’applicazione della sanzione – compresa tra 2.000 e 21.000 euro – prevista per la mancata presentazione dell’istanza.
Nota 1) In effetti il nostro ordinamento, come peraltro quello della maggior parte dei paesi europei fatta eccezione però per l’Inghilterra, prevede, nell’ambito del diritto delle successioni, delle quote di legittima diverse in base al grado di parentela, e una quota disponibile; la violazione delle “quote” può portare i legittimari ad esercitare l’azione di riduzione per i diritti lesi
Nota 2) Tale divieto non è presente in Germania mentre, come è noto, in Italia sono state introdotte misure, quali i patti di famiglia, che rappresentano, di fatto, una deroga al principio dei patti successori ed a cui è possibile accedere in presenza di aziende o quote di controllo. Tuttavia tale strumento non ha avuto la diffusione sperata a motivo dei limiti posti per la validità dell’istituto, tra i quali in particolare la necessità che al patto aderiscano tutti i legittimari, condizione questa spesso difficile da ottenere.
Nota 3) All’art. 7, comma 1, lett. d) Legge n. 366/2001 della delega sulla riforma del diritto societario riporta che “le fusioni tra società, una delle quali abbia contratto debiti per acquisire il controllo dell’altra, non comportano violazione del divieto di acquisto e di sottoscrizione di azioni proprie, di cui, rispettivamente, agli articoli 2357 e 2357- quater del codice civile, e del divieto di accordare prestiti e di fornire garanzie per l’acquisto o la sottoscrizione di azioni proprie, di cui all’articolo 2358 del codice civile”.
Nota 4) Come noto, secondo la nuova disposizione antiabuso, configurano “abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”. Devono considerarsi privi di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali; indici di mancanza di sostanza economica sono individuati nella “non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e nella non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato”. Per contro, deve escludersi l’abuso del diritto per le operazioni che risultino giustificate da valide ragioni extrafiscali ad esempio ricollegabili alla riorganizzazione aziendale, degli assetti proprietari e societari dell’impresa, a condizione che queste siano non marginali e rispondano a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’attività.
Nota 5) Il caso menzionato nella sentenza su richiamata appare poi particolarmente interessante in quando i giudici non considerano rilevante la circostanza che fra i soci della società fossero rimasti, in quota di minoranza, anche soggetti già presenti anteriormente all’operazione.
Nota 6) Al paragrafo 2.2 della circolare, si afferma infatti che: “le operazioni di MLBO vedono nella fusione (anche inversa) il logico epilogo dell’acquisizione mediante indebitamento, necessario anche a garantire il rientro, per i creditori, dell’esposizione debitoria” e che “la struttura scelta (nelle operazioni di Lbo) rispondendo a finalità extra-fiscali, riconosciute dal Codice Civile e, spesso, imposte dai finanziatori terzi, difficilmente potrebbe essere considerata finalizzata essenzialmente al conseguimento di indebiti vantaggi fiscali”
Nota 7) Come noto, il suddetto articolo 172 prevede, in sintesi, che le perdite fiscali e gli interessi passivi indeducibili delle società che partecipano ad un’operazione di fusione possono essere portati in diminuzione del reddito della società risultante dalla fusione ovvero dell’incorporante per la parte del loro ammontare che non eccede quello del patrimonio netto della società che riporta le perdite, quale risulta dall’ultimo bilancio o, se inferiore, dalla situazione patrimoniale redatta ai sensi dell’articolo 2501-quater del codice civile (senza tenere conto dei conferimenti e dei versamenti effettuati nei 24 mesi precedenti). La stessa norma condiziona, inoltre, il diritto al riporto delle perdite fiscali e delle eccedenze di interessi passivi indeducibili, che non superano l’anzidetto limite del patrimonio netto al superamento del c.d. “test vitalità economica” della società in perdita.
Il test di vitalità è superato se risulta un ammontare di ricavi e proventi dell’attività caratteristica, ed un ammontare di spese per prestazioni di lavoro e relativi contributi, superiore al 40%di quello risultante dalla media degli ultimi due esercizi anteriori alla data di bilancio o della situazione; secondo quanto chiarito con risoluzione del 10 aprile 2008, n. 143 (che conferma quella del 24 ottobre 2006, n. 116), inoltre, “i requisiti minimi di vitalità economica debbono sussistere non solo nel periodo precedente alla fusione, così come si ricava dal dato letterale, bensì debbono continuare a permanere fino al momento in cui la fusione viene deliberata”