Beni Immateriali: un’occasione di pianificazione fiscale anche interna

Beni Immateriali: un’occasione di pianificazione fiscale anche interna

E’ prassi assai diffusa nei grandi gruppi multinazionali quella di delocalizzare gli intangibles di rilevante valore, quali marchi, brevetti, e know how, con l’obiettivo di beneficiarie di regimi fiscali di favore come previsti in diversi Stati. Anche in ambito domestico, tuttavia, la presenza di beni immateriali di elevato valore può costituire un’occasione per ridurre l’impatto delle imposte beneficiando della normativa interna sul Patent Box.

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Nel processo di sviluppo economico caratterizzato da una spinta crescente alla specializzazione, si è assistito ad un significativo aumento dell’importanza dei beni immateriali nella produzione di valore. Tale fenomeno è stato tanto più rilevante in settori come quello della digital economy in cui i big data rappresentano un fattore fondamentale nella creazione di valore (come dimostrano colossi come Apple, Google e Amazon) e nel settore della moda in cui si rilevano i brand più importanti al mondo.

In Italia diverse PMI detengono asset intangibili con un elevato valore; ciò accade in particolare nel settore farmaceutico, in quello agro-alimentare e nel campo dell’high tech con riferimento alle start up innovative.

La creazione e lo sviluppo di intangible asset rappresenta pertanto, nell’attuale contesto economico, un fattore altamente strategico in grado di differenziare il proprio business da quello delle aziende concorrenti e, conseguentemente di incrementarne il valore (Nota 1).

Alla luce della crescente rilevanza economica dei beni immateriali che, come noto, sono generalmente correlati a competenze professionali, opere d’ingegno, brevetti e marchi aziendali, nell’ambito della prassi aziendalistica ha assunto un crescente interesse il tema della valutazione di tali assets (Nota 2).

Per altro verso, sotto il profilo fiscale gli assets immateriali hanno visto aumentare nel tempo la loro importanza come strumento di pianificazione fiscale.

In ambito internazionale la delocalizzazione di brevetti e marchi aziendali, ad esempio in Paesi come Olanda, Lussemburgo e Inghilterra caratterizzati da regimi fiscali particolarmente vantaggiosi, ha consentito alle multinazionali, soprattutto in passato, di defiscalizzare una parte del reddito del gruppo (Nota 3).

Si sono quindi diffusi schemi di pianificazione fiscale aggressiva volti a conseguire una sostanziale riduzione dell’imposizione nei Paesi nei quali hanno effettivamente luogo le attività economiche legate alla vendita di beni e servizi attraverso, appunto, il trasferimento della proprietà degli intangible; grazie all’applicazione combinata delle norme interne e delle Convenzioni contro le doppie imposizioni, si beneficiava quindi di ritenute ridotte sulle royalties in entrata e in uscita e, a seguito di un accordo ruling con l’Amministrazione fiscale dello Stato estero si raggiungeva infine l’obiettivo di conseguire un consistente risparmio d’imposta sui redditi ivi delocalizzati.

A fronte della diffusione di tale fenomeno, negli ultimi anni le amministrazioni dei diversi Paesi OCSE hanno rafforzato gli strumenti di contrasto all’elusione fiscale in ambito internazionale; sono quindi state emanate nel luglio 2017 le Linee guida OCSE sui prezzi di trasferimento per le imprese multinazionali o Transfer Pricing Guidelines (Nota 4) e, in ambito UE, di recente, la Direttiva UE del 25 maggio 2018 n. 2018/822/UE Direttiva DAC 6, parte integrante del c.d. “pacchetto trasparenza” della Commissione Europea (Nota 5). Anche in ambito nazionale il nostro legislatore ha potenziato le norme in materia di transfer pricing contenute nell’art. 110 comma 7 del TUIR (Nota 6).

In particolare, l’OCSE, con le BEPS Action 8-10 in materia di Intangibles ha confermato l’adozione del principio dell’arm’s lenght principle o di libera concorrenza secondo il quale il quale il prezzo equo applicabile nelle transazioni infragruppo è quello che sarebbe stato pattuito per transazioni similari poste in essere da imprese indipendenti (Nota 7).

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Senza soffermarci ulteriormente sull’utilizzo degli intangibles nella pianificazione fiscale dei gruppi internazionali, di seguito si focalizza l’attenzione sulle opportunità offerte dalla normativa italiana nel caso di diritti di sfruttamento dei beni immateriali conseguiti nell’esercizio di un’impresa con particolare riguardo alle società di capitali (mondo Ires).

In linea generale, i redditi, comprese le royalties, percepiti in Italia da soggetti Ires concorrono alla determinazione del reddito di impresa secondo le regole previste dall’art. 109 comma 2 lett. b) del TUIR e quindi nell’esercizio di competenza e sono tassati secondo le aliquote ordinarie Ires (24%) e Irap (4% circa). La tassazione ordinaria non reca particolari vantaggi in capo ai soggetti Ires che detengono assets immateriali, se non quelli connessi alla possibilità di dedurre analiticamente i costi relativi alla produzione o all’acquisti dei beni immateriali (Nota 8). In tale contesto, si segnala l’attenzione della giurisprudenza alla deducibilità dei costi delle royalties corrisposte dall’impresa a terzi, al fine di contrastare comportamenti elusivi legati al mancato rispetto dei requisiti dell’inerenza e della certezza e oggettiva determinabilità dei costi (Nota 9).

Ciò premesso, notevole rilevanza nell’ambito del reddito d’impresa assume, per contro, l’introduzione del particolare regime fiscale del “Patent box”, che consente di ridurre ex lege la tassazione sui redditi prodotti dagli assets immateriali (Nota 10). Il regime in oggetto, che si pone in continuità con i modelli progressivamente introdotti in altri Stati UE quali Belgio, Francia, Gran Bretagna, Lussemburgo, Olanda e Spagna, ed è conforme ai principi elaborati in ambito OCSE, riconosce la centralità dei beni immateriali nella creazione di valore aggiunto e ha come finalità quella di rendere il mercato italiano maggiormente attrattivo per gli investimenti in asset immateriali, sia nazionali che esteri di lungo termine, tutelando al contempo la base imponibile italiana. In particolare, gli specifici obbiettivi sono: a) incentivare la collocazione in Italia dei beni immateriali attualmente detenuti all’estero da imprese italiane o estere; b) incentivare il mantenimento dei beni immateriali in Italia, evitandone la ricollocazione all’estero; c) favorire l’investimento in attività di ricerca e sviluppo.

Nello specifico il Patent box consiste in un regime opzionale di tassazione agevolata, di durata pari a cinque periodi d’imposta, riconosciuto alle imprese che investono in attività di ricerca e sviluppo finalizzata alla realizzazione di alcune tipologie di beni immateriali (Nota 11), e si applica sui redditi derivanti dall’utilizzazione o dalla concessione in uso di tali beni.  Il beneficio consiste nella detassazione (ai fini Ires e Irap) del 50% del reddito derivante dall’utilizzo e sfruttamento dei beni. Un ulteriore beneficio consiste nella detassazione (ai fini sia Ires che Irap) delle plusvalenze realizzate attraverso la cessione dei beni immateriali, a condizione che almeno il 90% del corrispettivo della cessione sia reinvestito entro il secondo esercizio successivo, in attività di manutenzione o sviluppo di altri beni immateriali (Nota 12).

Tale regime gode del favor del legislatore che, infatti, di recente, ha introdotto delle semplificazioni volte a rendere la misura in oggetto di più facile applicazione e ancora più conveniente prevedendo, dal un lato, l’autodeterminazione del beneficio anche nel caso di utilizzo diretto dei beni (attraverso lo sfruttamento nell’ambito della stessa impresa) e, dall’altro, la suddivisione del beneficio in tre quote annuali. Per l’utilizzo diretto dei beni immateriali, originariamente la quota di reddito agevolabile doveva essere necessariamente determinata in base ad una procedura di “ruling” tramite specifica istanza all’Agenzia delle Entrate volta a determinare di comune accordo il valore da attribuire alla proprietà intellettuale e il contributo economico che quest’ultima è in grado di fornire all’impresa. Diversamente il ruling era facoltativo in caso di utilizzo indiretto o ingrafruppo del bene. Recentemente il Decreto “Crescita” (art. 4 del D.L. 34/2019) ha introdotto un’importante semplificazione procedurale prevedendo la facoltà di determinare il reddito agevolabile, anche in caso di utilizzo diretto, indicando le informazioni necessarie alla predetta determinazione in “idonea documentazione” che dovrà essere identificata con apposito decreto; tale procedura diviene quindi alternativa alla procedura di interpello preventivo o ruling ex art. 31-ter D.P.R. 600/1973 (Nota 13).

Per effetto di tali recenti modifiche legislative, quindi, anche in caso di utilizzo diretto del bene immateriale l’impresa potrà alternativamente a) presentare istanza di ruling, con possibilità di vedersi accordati i benefici fiscali previsti per i beni immateriali agevolabili solo a seguito dell’accordo concluso con l’Amministrazione finanziaria; b) predisporre autonomamente idonea documentazione per passare indenne l’eventuale controllo dell’Agenzia delle entrate.

Il decreto Crescita ha anche previsto l’obbligo di suddividere il beneficio in tre quote annuali. Non è tuttavia chiaro come tale obbligo vada coordinato con la previsione in base alla quale il beneficio opera su cinque periodi di imposta; su tale aspetto e sulle nuove modalità di “autodeterminazione” del beneficio si auspicano quanto prima chiarimenti ufficiali considerato peraltro che nel 2019 vi saranno le nuove opzioni per il quinquennio 2019-2023 e sono in scadenza i rinnovi per i ruling conclusi per il quinquennio 2015-2019.

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Si segnala che i non residenti, al fine di evitare la doppia imposizione delle royalties in Italia e nel proprio Paese possono sempre richiedere l’applicazione delle più favorevoli regole stabilite nella specifica Convenzione contro le doppie imposizioni e, in particolare, nel caso di royalties corrisposte fra società facenti parte dello stesso gruppo societario, è sempre possibile applicare la disciplina prevista dall’art. 26-quater del DPR 600/73 (derivante dalla Direttiva “interessi-canoni” n. 2003/49/CE), in forza della quale sono esentate da ritenuta “in uscita” le royalties di cui è effettiva beneficiaria una società del gruppo residente in uno degli Stati membri dell’Unione europea soggetta ad imposta sul reddito delle società.

Nota 1) Le imprese che sono titolari di diritti di proprietà intellettuale registrano, in generale, un livello di ricavi per dipendente superiore del 29%, un numero di dipendenti 6 volte più elevato e retribuzioni maggiori fino al 20% rispetto ad aziende analoghe che non depositano marchi e brevetti (dati dello Studio condotto dall’Ufficio per l’Armonizzazione nel Mercato Interno Uami di Alicante, cioè l’ufficio preposto alla gestione dei marchi e del design industriale in Europa fonte Sole 24 ore 19.06.2015)

Nota 2) I criteri di valutazione variano ovviamente in base alle finalità perseguite: da quelle meramente aziendali relative alla valutazione del capitale economico aziendale, a quelle contabili (IAS 38 e OIC 24) sino a quelle fiscali (Linee guida OCSE del 2017 Transfer Pricing Guidelines, normative sul Transfer Princing  e Patent Box).

Nota 3) Ci sono stati tanti casi di pianificazione fiscale aggressiva tra cui si ricordano quello posto in essere da IKEA (con delocalizzazione del marchio in Lussermburgo) e da Starbucks (in Inghilterra). Le operazioni in esame sono caratterizzate dal trasferimento della proprietà giuridica degli intangibles a società del gruppo residenti in Stati a fiscalità ridotta che poi ne affidavano lo sfruttamento economico ad altre società del gruppo, mediante contratti di licenza con la previsione di canoni periodici o royalties.  Per apprezzare i vantaggi di tali operazioni si pensi, a titolo esemplificativo, ad un marchio italiano che venga trasferito ad una holding lussemburghese (soggetta come noto ad un regime di tassazione particolarmente favorevole con un tax rate sulle royalties pari a circa il 5,4%), alla quale le società italiane del gruppo riconoscono delle royalties; da un lato, i canoni pagati dalle consociate italiane alla holding seppure, come vedremo a determinate condizioni, rappresentano in Italia costi totalmente deducibili (da Ires e Irap con un’aliquota complessiva pari a circa il 28%)  e, dall’altro lato, le royalties incassate dalla società lussemburghese scontano la predetta tassazione ridotta.

Nota 4) Il primo intervento in materia di transfer pricing risale al 1979 con la diffusione del Report on Transfer Pricing and Multinational Enterprises; successivamente sottoposto a revisione confluito nelle Transfer Pricing Guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administration pubblicate nel 1995 e modificate nel 2010 (Guidelines). A seguito della pubblicazione nel febbraio 2013, da parte dell’OCSE d’intesa col G20, del rapporto “Addressing  Base Erosion and Profit Shifting” è stato attivito un Action Plan  che ha dato vita ad una serie di documenti denominati BEPS, tra cui quelli relativi al Transfer Pricing in materia di intangible BEPS 8-10.

Nota 5) La Direttiva DAC 6, elaborata in seguito ai lavori OCSE/G20 del progetto BEPS, ha quale scopo principale quello di mettere tempestivamente a disposizione delle Amministrazioni finanziarie informazioni sui meccanismi transfrontalieri considerati potenzialmente aggressivi scoraggiandone così l’attuazione. Ruolo rilevante è attribuito agli intermediari (consulenti, banche, avvocati, fiduciari, intermediari finanziari ecc.), i quali sono i destinatari dei nuovi obblighi di comunicazione dei dati relativi a schemi ed accordi transnazionali posti in essere dal contribuente a fini meramente elusivi.

Nota 6) L’art. 110 comma 7 del TUIR, disciplina la valutazione dei componenti di reddito derivanti da operazioni con società del gruppo non residenti nel territorio dello Stato. La norma è stata modificata dal D.L. n. 50/2017 con l’obiettivo di adeguarne il contenuto sia alle best practices internazionali sia ai principi riconosciuti e raccomandati in sede OCSE: è stato eliminato il riferimento al concetto di valore normale per la determinazione dei prezzi di trasferimento prevedendo che i prezzi di trasferimento debbano essere determinati “sulla base delle condizioni e dei prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili”. L’obiettivo è quello di garantire che i rapporti intercorrenti fra le imprese che appartengono allo stesso gruppo multinazionale si svolgano alle medesime condizioni che sono previste all’interno dei rapporti con soggetti terzi indipendenti. La disciplina relativa ai prezzi di trasferimento (transfer pricing) trova applicazione nei confronti delle transazioni commerciali intercorse tra un’impresa residente e società non residenti che appartengono al medesimo gruppo, ossia tra un’impresa residente e società non residenti che (direttamente ovvero indirettamente) controllano l’impresa italiana, sono controllate dall’impresa italiana, oppure sono controllate dal medesimo soggetto che controlla l’impresa italiana. Tale disciplina, definita “transfer pricing estero”, non può essere conseguentemente applicata sulle transazioni che intercorrono fra società residenti in Italia appartenenti allo stesso gruppo (“transfer pricing interno”). La disciplina opera a fronte del riscontro di un'”operazione controllata”, da intendersi come “qualsiasi operazione di natura commerciale o finanziaria intercorrente tra imprese associate, accuratamente delineata sulla base dei termini contrattuali, ovvero dell’effettivo comportamento tenuto dalle parti se divergente dai termini contrattuali o in assenza degli stessi” (art. 2 co. 1 lett. d) del DM 14.5.2018); diversamente, non rientrano nell’ambito di applicazione della disciplina le operazioni non controllate, cioè poste in essere tra imprese indipendenti.

Nota 7) A tal fine l’OCSE presta grande attenzione viene rivolta all’identificazione e all’allocazione contrattuale dei rischi, allo scopo di individuare la o le società del gruppo che controllano il rischio e hanno la capacità finanziaria di sopportare le relative conseguenze economiche, così da contrastare le situazioni in cui a una società del gruppo sono attribuiti redditi eccessivi per il solo fatto che essa ha contrattualmente assunto rischi sui quali in realtà  non ha alcun controllo né la capacità finanziaria di sopportarne il peso. Pertanto, la proprietà giuridica di un bene immateriale da parte di una società del gruppo non attribuisce di per sé il diritto ai proventi generati dallo sfruttamento economico del bene immateriale; per contro, le società del gruppo che pure non dispongano della titolarità del bene immateriale ma che comunque svolgono, assumendone tutti i rischi, attività di sviluppo, miglioramento, mantenimento, sfruttamento e protezione di tale bene tali da incidere significativamente sul suo valore, hanno diritto ad essere adeguatamente remunerate. E’ quindi sulla/e società del gruppo che si assume i rischi e fornisce le risorse finanziarie per lo sviluppo dell’asset immateriale che vanno allocati i redditi/perdite da questo prodotti. L’Ocse ha quindi fornito indicazioni pratiche e innovative per la determinazione dei prezzi di trasferimento dei beni immateriali, finalizzate ad individuare la reale “fonte” del reddito derivante dallo sfruttamento economico dei beni immateriali, indipendentemente da quali siano le entità del gruppo cui è attribuita la proprietà legale dei beni.

Nota 8) Ad esempio per quanto riguarda i brevetti industriali, attualmente ai sensi dell’art. 103 comma 1 del TUIR, le quote di ammortamento sono deducibili in misura non superiore al 50% del costo; la deduzione dei relativi costi può, quindi, esaurirsi anche in soli 2 esercizi anche per un importo non costante (ris. Agenzia delle Entrate 13.2.2003 n. 35). Per i brevetti detenuti in licenza,  ai sensi dell’art. 103 comma 2 del TUIR, i costi di concessione iscritti nell’attivo del bilancio sono deducibili “in misura corrispondente alla durata di utilizzazione prevista dal contratto o dalla legge” (Leo M. “Le imposte sui redditi nel Testo unico”, Giuffré, Milano, 2018). Diversamente per i marchi è previsto la deduzione di quote di ammortamento annue non superiori ad un diciottesimo.

Nota 9) Si veda in particolare la giurisprudenza della Cassazione (sentenza n. 20911 del 3.10.2014), che ha escluso in capo ad una società italiana la deducibilità dei costi riaddebitati dalla controllante estera, corrispondenti alla quota parte di ammortamento, in mancanza di una prova documentale circa l’effettivo acquisto a titolo originario o derivativo di tali beni immateriali, riqualificati i costi come “royalties” e, trattandosi di operazioni infragruppo con controparte estera, rideterminandone l’importo in base alle norme sul transfer pricing ai sensi art. 110 comma 7 del TUIR. In altra occasione sempre la Cassazione (sentenza n. 12282 del 20.5.2013) ha negata la deducibilità delle royalties dedotte da una società per lo sfruttamento di marchi in precedenza ceduti a terzi per un corrispettivo considerato non congruo. Sempre in ambito infragruppo, giova ricordare come, secondo la giurisprudenza di merito (C.T. Regionale di Milano n. 83/13/13), non può essere giustificato il pagamento di royalties a meno che il contribuente non dimostri l’esistenza e l’inerenza di tali costi rispetto al suo business; nel caso di specie, i giudici hanno riprese a tassazione le royalties pagate ad una società del gruppo non residente per lo sfruttamento di un marchio sulla base della considerazione per cui il suddetto marchio non apportava alla società italiana particolari benefici economici.

Nota 10) Il regime del Patent Box è stato introdotto dall’art. 1 commi 37 – 45 della Legge di Stabilità 2015 (L. 190/2014) èd è stato nel tempo soggetto a diverse modifiche (ad opera del DL 3/2015, poi della Legge Stabilità 2016, l’art. 1 comma 148 L. 208/2015 e dal DL 50/2017 che ha escluso i marchi d’impresa) e attuato con DM 28.11.2017 (che ha sostituito il precedente DM 30.7.2015); recentemente l’art. 4 del Decreto Crescita (DL 34/2019) ha apportato delle modifiche al Patent Box con decorrenza dal periodo d’imposta 2019. I chiarimenti interpretativi sono stati forniti dall’Agenzia delle Entrate con circolare n. 11/E/2016. Quanto all’ambito soggettivo l’agevolazione spetta ai i titolari di reddito d’impresa, a prescindere dalla natura giuridica, dalla dimensione e dal settore produttivo di appartenenza degli stessi che eserciti l’opzione e abbia diritto allo sfruttamento economico dei beni immateriali e svolga attività di ricerca e sviluppo. Sono esclusi i titolari di reddito di lavoro autonomo; i soggetti assoggettati a procedure non finalizzate alla continuazione dell’attività (es. fallimento, liquidazione coatta); i soggetti titolari di reddito d’impresa che determinano il reddito con metodologie diverse da quella analitica (es. regime forfetario ex L. 190/2014, tonnage tax, società agricole che esercitano l’opzione per determinare il reddito su base catastale).

Nota 11) I beni immateriali agevolabili sono i seguenti: software coperto da copyright; brevetti industriali; marchi d’impresa (con limitazione temporale a quelli registrati o in corso di registrazione sino al 2016.); disegni e modelli; processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico giuridicamente tutelabili; due o più dei suddetti beni immateriali, collegati tra loro da un vincolo di complementarietà tale per cui la realizzazione di un prodotto o di una famiglia di prodotti o di un processo o di un gruppo di processi sia subordinata all’uso congiunto degli stessi. Sono esclusi beni quali: le opere letterarie; le opere drammatiche; le opere scientifiche; le opere didattiche; i format radiotelevisivi; le opere fotografiche; le opere dell’arte cinematografica; le opere della scultura; le opere e composizioni musicali; i disegni e opere dell’architettura; i progetti di lavori dell’ingegneria e le liste di nominativi (es. liste clienti e fornitori) che contengono informazioni aggregate ed utilizzabili dalle imprese in chiave di direct marketing (circ. Agenzia delle Entrate 7.4.2016 n. 11).

Nota 12) La plusvalenza è esclusa da tassazione per la parte del 50% del valore risultante dall’applicazione alla stessa del “nexus ratio” ossia del rapporto fra costi qualificati e costi complessivi, sostenuti dall’azienda.

Nota 13) Lo stesso Decreto Crescita ha quindi previsto che in caso di rettifica del reddito escluso da tassazione in applicazione dell’agevolazione in oggetto, da cui derivi una maggiore imposta o una differenza del credito, la sanzione applicabile per la dichiarazione infedele di cui all’ articolo 1, comma 2, D.lgs. 471/1997, non si applica qualora, nel corso di accessi, ispezioni, verifiche o di altra attività istruttoria, il contribuente consegni all’Amministrazione finanziaria la documentazione idonea a consentire il riscontro della corretta determinazione della quota di reddito agevolabile, sia con riferimento all’ammontare dei componenti positivi di reddito, ivi inclusi quelli impliciti derivanti dall’utilizzo diretto dei beni indicati, sia con riferimento ai criteri e alla individuazione dei componenti negativi riferibili ai predetti componenti positivi.