Il temine cash out identifica una operazione societaria elusiva, in quanto esclusivamente mirata a “prelevare” denaro dalla società a fronte di un tax rate contenuto. Lo schema classico del cash out prevede la rivalutazione e la successiva cessione di partecipazioni sociali in favore di una società riconducibile al cedente. Quando la società cessionaria accede all’indebitamento bancario per il pagamento delle quote il termine in uso è quello di Leverage Cash Out.
Si osserva che l’Agenzia delle Entrate, che a lungo non ha prestato attenzione a questo genere di operazioni, ha elaborato la fattispecie elusiva del cash out a partire dagli anni 2012/2013 (Nota 1).
Nel cash out l’Amministrazione Finanziaria contesta che la cessione delle partecipazioni oggetto di rivalutazione ad una società riferibile allo stesso socio non produce un mutamento dell’assetto economico della partecipazione e il principale risultato ottenuto è quello di rendere possibile un “prelievo” di denaro dalla società con l’applicazione di un tax rate contenuto. Il raffronto è effettuato chiaramente con la tassazione ordinaria, per esempio dovuta in caso di dividendo o compenso amministratore.
I casi tipici di cash out oggetto di rilievo da parte dell’Agenzia delle Entrate sono quelli che riguardano la cessione delle partecipazioni affrancate ad una società controllata dallo stesso cedente ovvero la costituzione di una new-co con oggetto sociale holding da parte delle stesse persone fisiche soci di una o più società le cui partecipazioni sono poi cedute alla stessa holding.
L’Agenzia delle Entrate spesso contesta l’abuso delle norme e l’indebito vantaggio tributario senza tenere conto della situazione specifica. E’ quello che spesso accade nel contesto delle operazioni di riorganizzazione aziendale dove gli schemi sopra descritti possono essere presenti. Ed infatti nella fase genetica del gruppo un passaggio chiave è quello che vede l’evoluzione da una conformazione societaria atomistica a ad una conformazione a gruppo attraverso la costituzione della holding industriale (Nota 2).
Occorre ora identificare gli elementi che sono alla base dell’abuso della norma secondo la posizione dell’Agenzia delle Entrate.
La partecipazione sociale, come è noto, può generare redditi in forma di capital gain, rientranti nella categoria dei “redditi diversi” e disciplinati dall’art. 67 e seguenti del Tuir, o in forma di dividendi, appartenenti alla diversa categoria dei “redditi di capitali” e disciplinati dall’art. 47 e seguenti del Tuir. A tale ultima categoria sono altresì assimilati anche i redditi ricavabili dal socio in sede di liquidazione, riscatto o recesso (art. 47, 7° comma, Tuir).
Quanto al così detto “affrancamento” o “rivalutazione” delle partecipazioni, lo stesso è stato introdotto nel nostro ordinamento in forma transitoria, e con riferimento alle partecipazioni detenute alla data del 1° gennaio 2002, attraverso la legge bilancio 2002 (Legge n. 448/2001). La norma ha tuttavia assunto un carattere sistemico in quanto interessata ad una regolare riapertura dei termini, da ultimo verificatasi anche con la legge di bilancio 2019 che fa riferimento alle partecipazioni detenute al 1° gennaio 2019.
Cosa significa “affrancamento” delle partecipazioni? Il termine tecnico utilizzato dalla disposizione normativa è quello della “rideterminazione del valore di acquisto della partecipazione” e comporta che se la partecipazione è stata acquistata in passato a 100 e può essere ora rivenduta a 200 con un capital gain (plusvalenza) tassato di 100, detta rideterminazione consente di “aumentare” il valore di acquisto della partecipazione sino al suo valore corrente così da azzerare la plusvalenza tassata. Detta “rideterminazione” è ottenuto grazie al pagamento di una imposta sostitutiva più bassa rispetto al regime ordinario (Nota 3).
Occorre richiamare l’attenzione sul fatto che dal testo della norma di cui all’art. 5 L. 448/2001 si ricava che gli effetti dell’”affrancamento” del costo della partecipazione (a fronte del prelievo sostitutivo) si producono con riferimento alla categoria dei redditi diversi e non con riferimento alla categoria dei redditi di capitale (Nota 4). Per effetto dell’affrancamento, infatti, verrebbe aggiornato il costo fiscale della partecipazione ai fini della cessione (o del conferimento) mentre non verrebbe modificato il costo fiscale delle partecipazioni nel caso di recesso, riscatto o liquidazione (fattispecie comprese nei redditi di capitale).
Ecco il punto alla base dei rilievi dell’Agenzia delle Entrate.
Il cash out sarebbe una operazione che nella sostanza produce una “trasformazione” dei redditi di capitale (per recesso, riscatto o liquidazione) in redditi diversi (capital gain) e perciò è una fattispecie di abuso della norma in quanto l’effetto prodotto, sul piano tributario, sarebbe contrario alla lettera della norma nonché alle intenzioni del legislatore.
Si deve subito osservare che secondo la dottrina maggioritaria tale differenziazione non troverebbe alcuna giustificazione sul piano sistematico anche osservato che quest’ultimi redditi (pur ricompresi nella categoria reddituale dei dividendi) sono determinati su base differenziale, ovvero per differenza tra il valore di ciò che viene percepito in tale sede e il costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione (Nota 5).
Molti interpreti sono stati quindi propensi a considerare tale disallineamento del costo fiscale della partecipazione – lo ricordiamo, tra l’ipotesi di cessione e quella di liquidazione – quale “mero refuso” normativo (Nota 6) mentre altri hanno hanno rilevato che il disallineamento è verosimilmente voluto in quanto mai corretto pur in presenza di numerose occasioni per intervenire sul piano normativo (date dalla sistematica riapertura dei termini per l’affrancamento). In più è stato osservato che tale circostanza è tanto più vera anche alla luce del fatto che in molti casi il legislatore non si è limitato a disporre di una semplice riapertura dei termini ma ha apportato modifiche sostanziali all’impianto della normativa tra le quali la misura del prelievo sostitutivo, da ultimo fissato all’11% per le partecipazioni qualificate e al 10% per quelle qualificate.
C’è chi ha sollevato, quindi, la questione sul piano del difetto di costituzionalità della norma per violazione del principio della parità di trattamento: fattispecie reddituali analoghe quali il realizzo della partecipazione a mezzo cessione e il realizzo della stessa mediante liquidazione, recesso o riduzione del capitale sociale condurrebbero, infatti, ad un trattamento tributario differente.
Altri autori, invece, hanno approfondito, sul piano degli effetti economico tributari, la differenza tra le due fattispecie di realizzo della partecipazione (cessione e recesso/riscatto/liquidazione) al fine di individuare una possibile ratio della norma e dei suoi, apparentemente ingiustificati, distinguo (Nota 7).
E’ così che una differenza è stata individuata nella circostanza che mentre la cessione della partecipazione non determina la riduzione del patrimonio netto della società nel caso di riscatto/recesso/ liquidazione si produce una riduzione definitiva delle riserve. Sarebbe pertanto giustificato il favor normativo per l’ipotesi di cessione delle partecipazioni in quanto tale circostanza non implica alcuna riduzione delle riserve nel netto la cui futura tassazione in caso di distribuzione è quindi salvaguardata. Di contro l’affrancamento non produce effetti nei casi di recesso, riscatto o liquidazione in quanto in tali ipotesi si produce una riduzione delle riserve con la conseguente definitiva in-tassabilità delle stesse.
Tale distinguo, esaminato nell’ambito dello schema del cash out prima descritto, consente di sostenere che solo se la società le cui partecipazioni sono oggetto di “rideterminazione” dei valori di acquisto presenta consistenti riserve di utili la cessione della partecipazione seguita dalla distribuzione delle riserve in capo alla cessionaria soggetto Ires per saldare il corrispettivo genera un vantaggio tributario indebito (Nota 8). Di contro laddove la società non presentasse riserve di utili e il pagamento del corrispettivo venisse frazionato nel tempo o regolato con il ricorso all’indebitamento, non producendosi alcuna immediata riduzione delle riserve, non si configurerebbe un indebito vantaggio.
Tale impostazione è stata in seguito fatta propria dall’Agenzia delle Entrate la quale ha affermato che le operazioni di leveraged cash out (LCO) nella quali il valore monetizzato ai soci non trova corrispondenza nelle riserve esistenti nella società oggetto di affrancamento, bensì è correlato agli utili futuri che si presume verranno prodotti dalla società, sono operazioni che rientrano nella normalità e quindi legittime. Tali operazioni, infatti, sarebbero dirette non a “distribuire” riserve ma a “creare” riserve e l’elemento aleatorio che caratterizza la rivalutazione in tali fattispecie sarebbero coerente con la natura del “prestito di imposta” attribuibile alla rivalutazione che comporta il pagamento di un’imposta subito per risparmiare imposte in futuro che potrebbero però anche non rendersi mai dovute.
La questione peraltro andrebbe approfondita caso per caso per tenere conto anche di quel che accade dopo. A titolo di esempio occorre osservare, anche nel caso di società gravida di riserve, che se la holding sopravvivesse alla riorganizzazione e tali riserve fossero oggetto di distribuzione le stesse, è vero, si ridurrebbero definitivamente in capo alla società che ha affrancato ma, al contempo, potrebbero riformarsi in capo alla società holding controllante (Nota 9). Ed allora, anche in tale caso, essendo la distribuzione avvenuta tra società in regime di impresa, potrebbe risultare preservata la tassazione in capo al socio persona fisica.
Tali considerazioni valgono ad evidenziare ancora una volta la “difettosità” dell’intervento normativo in materia di rivalutazione delle partecipazioni e l’estrema difficoltà di inquadramento della disposizione sul piano sistematico, ciò che ha indubbiamente prodotto, e produce ancora, incertezza ed aree grigie.
Un notevole contributo alla chiarezza deve tuttavia essere attribuito al decreto legislativo 5 agosto 2015, cd decreto sulla certezza del diritto, e in particolare alla nuova formulazione della norma anti Abuso applicabile a tutte le fattispecie compresa quella in commento.
La norma sull’Abuso del diritto è contenuta ora all’art. 10-bis dello statuto del contribuente che ha sostituito la precedente norma antielusiva contenuta nell’art. 37bis DPR 633/72. Come anche ben evidenziato anche nella Risoluzione n. 97/E del 2017, la nuova fattispecie di abuso è integrata con il verificarsi congiunto di tre presupposti costitutivi: la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito, l’assenza di una sostanza economica e l’essenzialità del conseguimento del vantaggio fiscale indebito.
Per la verifica di tali presupposti occorre procedere mediante una analisi progressiva che implica la preventiva verifica circa la natura indebita o meno del vantaggio fiscale conseguito. Quindi, integrata la casistica dell’indebito vantaggio, si rende necessario procedere con l’analisi dei punti successivi che ancora valgono ad escludere la presenza dell’abuso.
In base alla norma sull’abuso anche laddove l’Amministrazione Finanziaria riscontrasse un vantaggio fiscale indebito – secondo l’esempio sopra riportato, quindi, nell’ipotesi che si fosse in presenza di società con riserve di utili – non sarebbe comunque possibile configurare un abuso laddove fosse riscontrabile la sostanza economica dell’operazione e la non essenzialità del conseguimento del vantaggio fiscale. Si può certamente osservare che il presidio formato da tali ulteriori presupposti può, in molti casi, risultare più debole rispetto al primo (vantaggio indebito) in quanto caratterizzato da elementi di soggettività.
In linea generale è importante osservare, per esempio, come non possa essere messa in discussione la rilevanza sul piano economico di quella “riorganizzazione” dell’impresa (o società) diretta alla assunzione della forma di gruppo (di società o di imprese) ed alla conseguente creazione di una o più holding.
E’ ampiamente riconosciuta la circostanza che il gruppo di società (o imprese) rappresenta la forma di organizzazione più evoluta dell’impresa medio grande avendo sostituito in questa funzione la società per azioni. E ciò al punto di rilevare che l’avvento nel ventesimo secolo dei gruppi ha rappresentato, sul terreno dell’organizzazione giuridica dell’attività economica, una innovazione altrettanto profonda dell’avvento nel secolo precedente della società per azioni quale tipo di società caratterizzato dalla divisione del capitale in azioni e dalla responsabilità limitata dei soci (Nota 10).
Sul piano economico ed aziendale i gruppi di imprese (o società) sono oggetto di particolare studio in Italia già a partire dalla metà degli anni ’50 (Nota 11) e, oggi, nessun economista e/o giurista potrebbe mettere in dubbio la valenza sul piano funzionale, organizzativo, gestionale ecc… della forma di gruppo per la finalità della continuità, dello sviluppo e della crescita dell’impresa.
La stessa norma (art. 10-bis, Statuto del Contribuente) introduce un elemento di qualificazione della sostanza economica che certamente deve potersi riferire al fenomeno di formazione del gruppo di società. E, infatti, al comma 3°, si ricorda che “non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente”.
E’ evidente come la disposizione in oggetto debba essere soppesata con particolare riguardo alle operazioni di riorganizzazione aziendale che pur non implicando il mutamento del soggetto economico presentino una chiara valenza in termini di continuità e crescita imprenditoriale. Di contro il fenomeno abusivo del cash out, rispetto alle esemplificazioni sopra, deve necessariamente essere confinato a quelle ipotesi che si riferiscono ad atti di riorganizzazione totalmente privi di tale valenza e rispetto ai quali il vantaggio fiscale si pone come unico e centrale elemento della fattispecie.
Volendo ora richiamarsi all’esempio iniziale, un elemento che certamente può deporre verso la natura abusiva dell’operazione è la circostanza che la holding o non venga mai resa operativa o addirittura, esaurendo la sua funzione nell’ambito della sequenza negoziale, sia incorporata o incorpori la società le cui partecipazioni sono oggetto di affrancamento. Di contro non appare configurabile un abuso laddove la società holding venisse mantenuta nell’ambito della riorganizzazione e, in più, andasse a ricoprire il suo importante ruolo sia esso sul piano industriale che sia esso sul piano del controllo istituzionale del gruppo e di esercizio delle prerogative ad esso connesse (Nota 12).
Nota 1) In particolare è proprio con riferimento al 2013 che l’Agenzia della Entrate nell’ambito dei premi assegnati ai dipendenti nella categoria “Contrasto all’Evasione e Contenzioso” ha assegnato il primo premio ad un funzionario che “impegnandosi in un percorso d’indagine denominato “Leveraged Cash Out”…ha permesso di smascherare un meccanismo elusivo legato alla tassazione dei dividendi..”.
Nota 2) Né può essere messa in discussione, come verrà meglio detto infra, la valenza sul industriale della creazione della holding nell’ambito del processo di crescita e sviluppo dell’impresa
Nota 3) Occorre prestare attenzione tuttavia al calcolo di convenienza in quanto la base imponibile dell’imposta sostitutiva e dell’aliquota ordinaria sono diverse. La prima, infatti, si applica all’intero valore della partecipazione oggetto di “rideterminazione” mentre la seconda è applicata solo sul capital gain. Se facciamo il caso dell’attuale aliquota sostitutiva del 10-11% e dell’aliquota ordinaria del 26% è agevole osservare che è conveniente la rideterminazione della partecipazione solo in presenza di una plusvalenza che eccede il valore di acquisto di oltre i 2/3 del suo valore. E’ agevole osservare che in passato, con le aliquote sostitutive del 2% e del 4%, la platea dei soggetti potenzialmente interessati alla rideterminazione del valore di acquisto era molto più ampia
Nota 4) Ed in effetti la norma introduttiva, mai modificata e/o integrata, fa esclusivamente riferimento “agli effetti della determinazione delle plusvalenze e delle minusvalenze di cui all’art. 81, comma 1, lettere c) e c) bis del DPR n. 917/86”, oggi divenuto l’art. 67 comma 1, lettere c) e c) bis del Tuir. Per converso non sono richiamate dalla norma altre disposizioni per le quali rileva il costo di acquisto delle partecipazioni quali quelle inerenti i casi di recesso, esclusione, riscatto, riduzione del capitale esuberante o liquidazione della società. Tale circostanza è stata subito evidenziata dall’Agenzia delle Entrate nelle Circolari n. 12/E del 31 gennaio 2002 e, poi, con le successive circolari n. 26/E del 2004, n. 16/E del 2005
Nota 5) Cfr R. Lupi “L’interposizione come legittima difesa delle imperfezioni normative”, in Dialoghi tributari, n. 2009; D. Stevanato “Atti di disinvestimento patrimoniale e spendita del costo fiscale delle partecipazioni affrancate”, Dialoghi tributari, n. 2/2009
Nota 6) R, Rizzardi Rivalutazione delle partecipazioni: quando l’imposta sostitutiva non raggiunge lo scopo” in Corriere Tributario, n. 44/2011
Nota 7) G. Andreani e A. Tubelli, Cash out quando è elusivo e quando no, Il Fisco, n. 13/2017
Nota 8) Ed in effetti le riserve scontano solo l’Ires sul 5% mentre il socio – che incassa il prezzo di cessione – non paga le imposte che avrebbe dovuto corrispondere in caso di distribuzione diretta in capo al medesimo delle riserve
Nota 9) Ciò naturalmente se, ed in quanto, la distribuzione delle riserva non implicasse automaticamente la svalutazione della partecipazione con conseguente azzeramento dell’utile derivante dalla distribuzione delle stessa riserva in capo alla società holding
Nota 10) F. Galgano, I gruppi di società, Utet 2001; U. Tombari, Diritto dei Gruppi di Imprese, Giuffrè 2010
Nota 11) Per tutti i riferimenti: M. Bergamaschi, I Gruppi Aziendali dinamiche strategiche e strutture organizzative, Cedam 2011
Nota 12) Con le implicazioni previste dalla norma di cui all’art. 2497 e ss del Cod. Civ. in caso di presenza di una attività di direzione e coordinamento.